Le due commissioni di esperti nominate dal Presidente Napolitano dovrebbero assumere come problema fondamentale dell’Italia l’avvitamento recessivo provocato dalle politiche di austerità imposte all’Europa dall’ortodossia rigorista tedesca. Si tratta di prendere atto che la «mainstream economics » di cui la Merkel è paladina ha fallito nel prevedere prima la profondità della crisi più grave dal dopoguerra e ora la durata della recessione che ne è seguita. In Italia con un impatto occupazionale eccezionalmente negativo di cui il dato del governo sul milione di licenziamenti nel 2012 non è che l’ultimo preoccupante segnale. Entrati nel sesto anno della crisi globale «bisogna pensare creativamente e superare i tabù», osa affermare Adair Turner già presidente della inglese Financial Services Authority. Per esempio «il tabù che vieta di stampare moneta per finanziare il deficit pubblico». Il ragionamento di Turner è il seguente. Occorre partire da una consapevolezza non ancora pienamente raggiunta e cioè che la crisi globale è stata causata da un enorme incremento non del debito pubblico ma dell’indebitamento privato (sia del sistema finanziario sia dell’economia reale) ed è l’inevitabile «deleveraging» (riduzione della leva finanziaria) susseguente a una crisi da indebitamento privato a creare così forti pressioni deflattive. Prima della crisi l’assunzione prevalente della teoria e della politica economica in atto era che il crescente indebitamento – concernendo contratti privati tra agenti presupposti razionali – potesse essere o ignorato (perché, in modelli standard di moneta, inflazione e output reale, l’evoluzione dei mercati finanziari veniva considerata neutrale) o addirittura salutato come benvenuto, perché l’approfondimento finanziario veniva assiomaticamente giudicato benefico in quanto riflette un completamento del mercato. Se ieri la teoria e la politica economica hanno fallito nel prevenire un eccessivo indebitamento privato rivelatosi alla fine insostenibile, oggi la principale sfida macroeconomica scaturisce dagli effetti deflazionistici del deleveraging del settore privato: il collasso nel credito riflette una riduzione sia dell’offerta (perché le banche fronteggiano sofferenze crescenti) sia della domanda di credito, poiché imprese e famiglie cercano di riequilibrare i loro squilibrati bilanci, a fronte dell’abbassamento del prezzo degli assets e di aspettative ridotte di reddito futuro. Ma proprio il collasso nel credito deprime ulteriormente i prezzi degli assets e la domanda nominale, rendendo più difficile per tutti raggiungere il desiderato deleveraging. Si entra così in uno stallo recessivo che si autocumula. In situazioni simili la manovra sul classico strumento della politica monetaria, il tasso di interesse, si rivela insufficiente. La Fed, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone, la Bce hanno tutte già portato i tassi di interesse a zero o quasi, ma l’impatto di ciò sull’economia reale è chiaramente modesto. Le Banche centrali stanno utilizzando abbondantemente – e meno male! – strumenti aggiuntivi «non convenzionali», i quali agiscono sui tassi di interessi e inducono gli agenti a cambiare comportamento, per esempio sostituendo moneta con titoli e riducendo il costo dell’offerta di credito. Ma in condizioni di recessione indotta da riequilibrio dell’indebitamento aumenta considerevolmente l’inelasticità degli operatori dell’economia reale ad ogni ulteriore caduta dei tassi di interesse: nella misura in cui titoli privi di rischio e moneta diventano perfetti sostituti, si approfondisce la «trappola della liquidità » in cui siamo entrati e in cui ogni nuova sostituzione di moneta con titoli ha effetti minimi sui comportamenti. D’altro canto, il sostegno monetario e il sussidiamento del credito da parte della Banche centrali funzionano stimolando un paradossale nuovo aumento dell’indebitamento, il quale può viepiù rafforzare la nostra vulnerabilità all’instabilità finanziaria ed economica. Qui sorgono le domande cruciali. Ha senso continuare ad assumere come appropriati i target e gli strumenti dell’ortodossia? Non è meglio prendere atto che in un ciclo di deleveraging le economie soffrono di profonde recessioni, a meno che i governi non si dispongano a larghi deficit (i quali, d’altro canto, tendono ad aumentare in ogni caso poiché la recessione riduce le entrate e accresce le spese governative per ammortizzatori)? Il deleveraging postcrisi – essenziale per riconquistare la stabilità finanziaria di lungo termine – crea un ambiente macroeconomico immensamente rischioso, in quanto le sofferenze della bassa crescita possono durare non per anni ma per decenni. Esistono politiche alternative, le quali possono effettivamente stimolare la domanda e con implicazioni meno dannose di quelle incubate dalle misure monetarie. Si tratta di politiche connotate dalla medesima «non convenzionalità» che caratterizza le prassi monetarie odierne, politiche macroeconomiche volte, mediante uno stimolo fiscale pubblico, a mettere direttamente potere di spesa nelle mani di famiglie e imprese (piuttosto che con i meccanismi indiretti di creazione di credito, ricomposizione del portafoglio, effetti ricchezza). Uno stimolo fiscale diretto «monetizzato» – dice Turner – apertamente finanziato con la creazione di moneta. L’importante è fissare paletti che disciplinino queste politiche, definendone gli ammontari (non debbono essere eccessivi) e le circostanze appropriate (possono essere usate solo per scopi produttivi precisi). Il rivoluzionario Bernanke non aveva forse immaginato già nel 2003, riflettendo sull’ultradecennale stagnazione giapponese, «uno stimolo fiscale monetizzato a supporto di programmi di spesa, per esempio per facilitare una ristrutturazione industriale»?
L’Unità 08.04.13