Lo sfondamento della linea Maginot di un milione di licenziamenti nel 2012, come raccontano i freddi dati del ministero del Lavoro, a ridosso della tragedia dei suicidi da lavoro e povertà, è un tremendo doppio colpo nello stomaco del Paese, di alto valore simbolico e reale, con il quale l’economia e le condizioni materiali delle persone tornano da protagoniste sulla scena politica, economica e sociale. Il contatore delle comunicazioni obbligatorie di avviamenti e cessazioni del ministero denota un mercato del lavoro in subbuglio, per niente stagnante, nel quale la prevalenza di segnali negativi non deve condannare alla rassegnazione.
C’è da chiedersi quanto male stia facendo lo stand by della politica, ferma da sei mesi e incapace di uscire dal pantano in cui si è messa, a cui gli attori dell’economia reale non riescono a contrapporre una linea alternativa di ripresa.
Serve una svolta rapida, una terapia d’urto, una salutare reazione di emergenza, che rimetta sviluppo e lavoro al centro delle agende di tutti gli attori coinvolti. E’ finito il tempo delle analisi e delle diagnosi, sui cui dati siamo sempre capaci di accanirci anziché trovare rimedi; è arrivato il tempo delle terapie e delle soluzioni, qui ed ora, senza attribuirle a meccanici e futuribili cambiamenti del contesto internazionale. Siamo il Paese che negli ultimi dieci anni è cresciuto di meno, per questo dobbiamo lavorare di più, almeno il doppio degli altri.
Tre sono gli assi che possono ridurre l’esercito dei tre milioni di senza lavoro, di cui 650 mila giovani sotto i 25 anni, in grado di fare da locomotiva che ci allontani dalla depressione della disoccupazione: la riduzione dei costi del lavoro e gli incentivi strutturali alle assunzioni; la rete dei servizi di accompagnamento al lavoro e di ricollocazione; un’agenda minima per la ripresa, con settori vecchi e nuovi su cui creare sviluppo, lavoro e valore.
La riduzione strutturale del cuneo fiscale, il rapporto tra stipendi lordi e netti, può dare una boccata di ossigeno a famiglie e imprese, insieme all’uso mirato di incentivi per le aziende che assumono. Anche in un’epoca di scarsità, si possono individuare i settori su cui liberare risorse.
Il secondo asse, la rete dei servizi al lavoro, pubblici e privati, anziché condannarsi al piccolo cabotaggio, può assumere un ruolo da protagonista nel nuovo mercato del lavoro. Tre milioni di disoccupati sono un macigno altrettanto importante della voragine del debito pubblico, che ci chiede di abbandonare la politica dei due tempi: prima il rigore, poi lo sviluppo; prima i conti in ordine, poi la ripresa; prima il deficit, poi il lavoro. Una nuova classe dirigente dovrà dimostrare coraggio, lungimiranza e inventiva adeguati ai tempi che viviamo. I disoccupati non sono un incidente di percorso, un inciampo ai progetti di risanamento; sono risorse, non rottami. Ricollocarli attraverso una gigantesca campagna di outplacement e di ritorno al lavoro rimette in gioco risorse che non sono perdute, ma che possono essere rimotivate. Basti pensare alla manutenzione del paesaggio e del territorio, che può creare un circuito virtuoso e non più assistenziale.
Infine, ed è la terza gamba, l’agenda per l’emergenza orientata alla creazione di lavoro e valore ci impone di essere selettivi. Già oggi ci sono settori che andrebbero incoraggiati: pensiamo al grande mondo del web e al digitale, a quello della green economy, al made in Italy e al design, che in questi giorni ci porta alla ribalta internazionale. L’avanzo primario, detratti gli oneri per interessi, ci sta già raccontando in filigrana i settori che «funzionano nonostante»: l’industria per le macchine e l’automazione, ancora un fiore all’occhiello della nostra impresa, insieme a tutte quelle imprese, piccole e medie, che da tempo si sono rinnovate e hanno puntato la propria prua sull’esportazione. Se il mercato interno è fiacco, il nuovo mercato è il mondo: l’abbiamo fatto in passato, lo potremmo ripetere. Senza contare le risorse nascoste e mobilitabili nell’artigianato di qualità. Il piano del lavoro e per la crescita è la priorità e reclama, ora e subito, una nuova classe dirigente di maggiore spessore e generosità.
La Stampa 08.04.13