Non di soli slogan vive l’uomo. Il “patto di stabilità” che ci viene martellato nelle coscienze come fosse una legge di natura elude il solo punto essenziale: quale stabilità ci preme di più, quella dei conti pubblici o quella della società?
Per sanare il bilancio dobbiamo comprimere la spesa sociale, esiliare la cultura, mortificare la sanità, emarginare i più giovani e i più vecchi? Davvero non ci sono alternative? “Stabilità” non descrive forse un Paese immobile, incapace di crescere? Assediati dallo spread e dai suoi capricci, abbiamo perduto la libertà (e la lucidità) di vedere quel che accade. Tristi primati soffocano l’Italia, ne determinano l’immagine nel mondo, erodono la nostra credibilità. Nella mappa sulla libertà di stampa del Newseum di Washington (il più importante museo al mondo sui media) l’Italia è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo come “parzialmente libero” (Press Freedom Map: www.newseum.org ). Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei tre Paesi più corrotti d’Europa (con Grecia e Bulgaria), peggio di Ghana, Namibia, Ruanda. Secondo dati Ocse, l’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduto solo da Turchia e Messico (lo ha ricordato Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, in audizione al Senato lo scorso ottobre).
Trattiamo questi ed altri problemi come fossero lontani dalla nostra vita di ogni giorno, come non avessero niente a che fare con la crisi, con l’instabilità sociale, la disoccupazione, l’impoverimento delle classi medie, la drammatica crescita delle disuguaglianze. Eppure queste ed altre infelicità private sono innescate o aggravate dalla recessione, che si compie all’insegna di una spietata concentrazione della ricchezza, intrecciata allo smontaggio dello Stato, alla privatizzazione dei beni pubblici, ai continui tagli della spesa sociale. Accecati dalle retoriche neoliberiste dello Stato “leggero” (tanto leggero da sparire), siamo prontissimi ad abolire le province (risparmio annuo previsto: 500 milioni di euro), senza accorgerci che si risparmierebbe molto di più acquistando un aereo militare in meno o evitando qualche chilometro di inutili Tav. Determinati a non affrontare i problemi alla radice, ci accontentiamo di palliativi (qualche riduzione di stipendio, qualche parlamentare in meno…), attribuendo implicitamente i danni e la crisi alla stessa esistenza delle istituzioni pubbliche, e non alle loro
disfunzioni, non alla lottizzazione politica, non all’insediarsi di incompetenti nei posti di comando, non al saccheggio dei beni pubblici. Predichiamo slogan bugiardi che esaltano lo sviluppo, e intanto lo impediamo con tagli dissennati alla cultura, alla scuola, all’università, alla ricerca. Secondo dati Istat, la capacità creativa misurata sul numero dei brevetti è bassissima in Italia (78 per milione di abitanti, contro i 294 della Svezia); gli addetti a ricerca e sviluppo, mediamente 5 ogni mille abitanti nei Paesi dell’Unione Europea, arrivano fino a 10,5 in Finlandia, mentre l’Italia si ferma a un misero 3,7, molto sotto il Portogallo o l’Estonia; per giunta, le regioni del Sud sono particolarmente sfavorite (indice medio 1,8). Per essere creativo, un ricercatore italiano deve emigrare? Eppure la crescita deriva dall’innovazione, l’innovazione è figlia di formazione e ricerca.
Ci rallegriamo che da noi abbia votato il 75% degli elettori (meno che in Belgio ma più che in Germania), ma non guardiamo negli occhi la distribuzione del non-voto. Non hanno votato 11.633.613 cittadini (dati Camera), ma ad essi va aggiunto chi ha votato scheda bianca o nulla (1.267.826 cittadini). Inoltre, 1.706.057 cittadini hanno votato per formazioni politiche che non hanno seggi in Parlamento. Sommando queste cifre, si arriva al 31,16% degli elettori: un terzo del Paese non è rappresentato in questo Parlamento. C’è oggi un Papa che parla ai non-credenti, ma quale dei politici saprà parlare ai non-votanti, recuperandoli al pieno esercizio della cittadinanza? Non sembra esser questo il progetto dei nostri vecchi e nuovi leader di partito e feudatari di corrente, che indugiano in liturgie tattiche identiche a quelle, che credevamo defunte, dell’era dei quadripartiti e dei pentapartiti.
Importantissime scadenze ci aspettano, e con questi tatticismi miserandi hanno poco a che vedere: sia il capo dello Stato che il governo dovranno essere all’altezza di un compito arduo ed essenziale, che non può limitarsi a misure di salute pubblica come una nuova legge elettorale o la messa al bando del conflitto d’interessi. Deve affrontare i nodi della corruzione, dell’evasione fiscale e del suo contributo alla crescita del debito pubblico, deve cercare un nuovo equilibrio fra le necessità immediate della finanza pubblica e l’alto orizzonte dei diritti disegnato dalla Costituzione (a cominciare dal diritto al lavoro, alla salute, alla cultura). Deve investire in formazione e ricerca per liberare le energie creative di cui il Paese abbonda. Deve riconquistare lo sguardo lungimirante della nostra Carta fondamentale, proponendo al Paese un progetto per il futuro. Deve rimettere in circolo quello che più ci manca oggi: la speranza. Speranza non nella competizione fra individui, ma nell’equità e nella giustizia sociale.
Il 3 febbraio 2013 vicino a Trapani Giuseppe Burgarella, operaio edile disoccupato da quasi due anni, si è impiccato lasciando fra le pagine di una copia della Costituzione questo biglietto: «L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la mia dignità? E allora se non lo fa lo Stato lo debbo fare io». Questo suicidio non è meno tragico né meno simbolico di quello di Jan Palach, lo studente di Praga che si dette fuoco nel 1969 per «scuotere la coscienza del popolo sull’orlo della disperazione e della rassegnazione». Nella terribile catena di suicidi che sta dilagando oggi in Italia (questo giornale ne ha dato una mappa sabato), Giuseppe Burgarella che sceglie la morte volontaria con in mano la Costituzione saprà scuotere le nostre coscienze? I parlamentari neo-eletti sapranno cercare nei principi della Carta la bussola che guidi le loro coscienze? Si ricorderanno che secondo la Costituzione ciascuno di loro, individualmente, rappresenta non il boss che lo ha messo in lista, ma l’intera Nazione?
La Repubblica 08.04.13