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"Quando Grillo arriverà alla Rai", di Giovanni Valentini

Con il suo ultimo attacco frontale alla Rai, Beppe Grillo ha scelto proprio il caso specifico che — al di là della grave crisi economica e sociale del Paese — rappresenta meglio di qualsiasi altro l’autismo mediatico, il velleitarismo para-rivoluzionario e l’autoreferenzialità politica del Movimento 5 Stelle in questa incerta e turbolenta transizione. Da sempre epicentro della vita pubblica nazionale, greppia o alcova di Stato che dir si voglia, l’azienda di viale Mazzini versa oggi in una situazione di degrado che riflette, come nell’illusione ottica di uno specchio deformante, l’attuale stallo della nostra politica. E avrebbe bisogno perciò di una terapia d’urto, di interventi precisi e immediati.
Nel capitolo “Informazione” del programma pentastellato, richiamato in proposito dallo stesso “guru”, si prevede la “vendita ad azionariato diffuso, con proprietà massima del 10%, di due canali televisivi pubblici”; “un solo canale televisivo pubblico, senza pubblicità, informativo e culturale, indipendente dai partiti”; e infine l’abrogazione della legge Gasparri che qui abbiamo definito fin dall’approvazione in Parlamento famigerata, scellerata e così via. Ma, a parte il fatto che non si parla per niente della radio pubblica su cui converrà senz’altro ritornare, Grillo ignora evidentemente che la Rai gestisce non 3, bensì 14 canali tv. Nel frattempo, da quando è entrato in Parlamento, il Movimento di Grillo chiede la presidenza della Commissione di Vigilanza, mentre in realtà sarebbe opportuno abolirla per cominciare a eliminare il controllo politico.
In attesa di una tale palingenesi, il servizio pubblico annaspa nelle difficoltà finanziarie di bilancio e soprattutto in una crisi strutturale d’identità che in questa rubrica denunciamo ripetutamente da anni. Non è chiaro con quale schieramento di maggioranza il Movimento 5 Stelle si proponga di realizzare il suo programma, né su questo punto né tantomeno su tutto il resto. Ma è chiaro che da solo, almeno per il momento, non riuscirà a farlo e che intanto la situazione della Rai è destinata fatalmente a peggiorare.
Con un vertice insediato dall’ex governo dimissionario dei tecnici, composto da una presidente e da un direttore generale tanto incompetenti sulla materia quanto inadeguati, la tv pubblica naviga oggi alla deriva, senza rotta e senza nocchiero. Prima ancora di mettere in vendita due canali, ammesso pure che si trovi qualcuno disposto a sottoscrivere quote fino a un massimo del 10%, sarebbe necessario e urgente modificare la “governance” dell’azienda, per affrancarla dalla subalternità ai partiti (di destra, di centro o di sinistra) e affidarla direttamente alla responsabilità dei cittadini, abbonati e telespettatori. E per non fare — anche inconsapevolmente — un grosso “cadeau” a Silvio Berlusconi, bisognerebbe nello stesso tempo riformare l’intero sistema, in modo da non favorire la concentrazione televisiva e pubblicitaria in mano a Mediaset.
In una pungente e garbata “Cartolina” indirizzata a Grillo nel 1994, riproposta nei giorni scorsi da Myrta Merlino nella sua trasmissione “L’aria che tira” su La 7, quel maestro di giornalismo che fu Andrea Barbato (vice-direttore di “Repubblica” alla fondazione e poi direttore del Tg 2) chiedeva al comico del “vaffa” già vent’anni fa: “Siamo sicuri che questo lavacro di insulti a persone assenti non finisca per benedire proprio quelle persone?”. Ecco il rischio che il Movimento 5 Stelle corre oggi nei confronti della “casta”, dentro e fuori la Rai: il rischio, cioè, di consolidare il duopolio e il regime televisivo, mentre si potrebbe più realisticamente smontare l’uno e rovesciare l’altro.
Un servizio pubblico restituito alla sua funzione originaria, come negli altri Paesi europei, sarebbe in grado di svolgere un ruolo pedagogico in quest’Italia ignorante e volgare. Ma per uscire dall’oscuro ventennio del berlusconismo occorre aggregare un fronte del rinnovamento morale e politico. E i Cinquestelle hanno ora l’occasione — forse irripetibile — di contribuire a cambiare il sistema, televisivo e politico, dall’interno delle istituzioni piuttosto che inseguire utopie rivoluzionarie e dare l’assalto alla Bastiglia dell’informazione.

La Repubblica 06.04.13