È ormai evidente che, fra le possibili conseguenze dell’attuale crisi politica e dello stallo in cui si trova il tentativo di dare un governo all’Italia, la ricerca di uno sbocco di tipo presidenziale non può essere ritenuta del tutto irrazionale. La crisi del sistema dei partiti sembrerebbe infatti trasmettersi, come un virus, al sistema istituzionale.
Imponendo l’abbandono del regime parlamentare e l’opzione per un’altra forma di governo, caratterizzata dall’elezione diretta del Capo dello Stato e dall’attribuzione a esso di rilevanti poteri di direzione politica, secondo le diverse varianti dello schema semipresidenziale o (meno frequentemente) presidenziale, oppure dall’elezione del Primo Ministro secondo lo schema del cosiddetto «sindaco d’Italia».
In questa direzione spingono due ordini di argomenti, per alcuni aspetti contraddittori fra loro, ma di indubbio rilievo. Il primo muove dalla constatazione della crescita dei poteri presidenziali verificatasi nella nostra prassi costituzionale e culminata nell’attuale Presidenza, soprattutto nella sua fase finale (dal 2011 a oggi). Di fronte alla crescita del ruolo presidenziale determinato prima dall’emergenza economica del 2011, poi dall’esistenza di un governo tecnico di iniziativa presidenziale e ora dalla crisi politica, molti credono che il Presidente della Repubblica abbisogni di una legittimazione diversa da quella che l’attuale sistema di elezione gli assicura. L’elezione diretta avrebbe in questa prospettiva la finalità di assicurare che l’accresciuto ruolo presidenziale (ormai non più rubricabile come una mera garanzia) sia supportato da una investitura popolare. Del resto anche alcune discutibili iniziative di questi giorni (come la scelta online del loro candidato alla Presidenza della Repubblica, annunciata dai deputati pentastellati o la petizione in favore di una donna al Quirinale), se appaiono del tutto irrituali, sono comunque il segno di un mood diffuso, non certo nuovo (si pensi alle iniziative pro-Bonino nel 1999), ma sempre più forte.
Il secondo ordine di argomento prende invece le mosse non dalla crescita in fatto dei poteri presidenziali, ma dalla situazione di crisi politica. Un sistema politico come quello italiano attuale, assoggettato a spinte fortemente centrifughe, non sarebbe in grado di assicurare la governabilità facendo leva sullo strumento cui punta il regime parlamentare: i partiti politici e la loro capacità di autoregolazione. In questo contesto, la crisi italiana del 2013 sarebbe una riedizione, con oltre mezzo secolo di ritardo, di quella francese del 1958, con i deputati pentastellati visti come generatori involontari del presidenzialismo allo stesso modo in cui lo furono i generali putschisti francesi che nel maggio 1958 volevano impedire l’indipendenza dell’Algeria. E come i generali francesi non riuscirono a impedire il superamento dell’Algerie française, i grillini dalla cultura assembleare sarebbero gli incubatori di una svolta para-presidenziale. Se nella prospettiva del primo argomento basato sul rafforzamento dei poteri presidenziali si dovrebbe reagire a un presidenzialismo di fatto (ancorché parziale e incipiente) con un sovrappiù di legittimazione democratica, la seconda linea argomentativa vede in una presidenzializzazione formale del sistema istituzionale la cura delle inefficienze del regime parlamentare.
Sarebbe riduttivo sottovalutare il peso dei due argomenti ora esposti, in quanto essi muovono da dati di fatto difficilmente contestabili (la crescita in fatto dei poteri presidenziali; la situazione di blocco in cui ci troviamo). Si può tuttavia dubitare che una svolta in senso presidenziale sia davvero la risposta più adeguata alle sfide lanciate dai due dati di fatto ora citati.
In primo luogo troppo spesso, in una parte della cultura giuridica e politica italiana, vengono sottovalutati la complessità del sistema francese e l’originalità che esso riveste in prospettiva comparata. Il semipresidenzialismo d’Oltralpe comunque lo si valuti è un caso unico: assetti formalmente analoghi dal punto di vista costituzionale producono assai più spesso regimi parlamentari corretti (ad esempio nell’est Europa) o regimi superpresidenziali squilibrati (in Russia e in Africa Nera). Cosa ci garantisce che innestare l’elezione diretta del Presidente su un assetto parlamentare (magari aggiungendovi il doppio turno di collegio) ci porterebbe necessariamente a Parigi (e non a Mosca o a Weimar)? Inoltre lo stesso sistema francese è troppo spesso sopravvalutato: esso produce un eccesso di concentrazione di poteri e di aspettative nel Presidente, il quale, soprattutto in regime di quinquennato, è facilmente sballottato dalla polvere agli altari, come le vicende di Sarkozy e di Hollande hanno ben dimostrato. Siamo sicuri che un meccanismo di questo tipo sarebbe davvero curativo rispetto alla situazione di crisi attuale?
In secondo luogo, c’è da chiedersi se l’azione riformatrice non debba in primo luogo assumere un’altra direzione: quella della legge elettorale, da un lato; e quella della riforma del bicameralismo, dall’altro. Mantenendo immutate le regole attuali su questi due profili, l’introduzione dell’elezione diretta risolverebbe ben poco. Con riforme adeguate di essi, non sarebbe, forse, necessaria.
L’Unità 06.04.13