Comincio ricordando a me stesso che, dopotutto, la differenza tra destra e sinistra esiste. Non meravigliamoci delle difficoltà che ha incontrato l’iniziativa di Bersani. Erano oggettive ma avrebbe avviato una grande svolta riformista. La gente l’ha capito? Io vedo zone di vera e propria disperazione e urgenze estreme di intervento, e vedo gente anche nostra molto disorientata. È difficile parlare di politica. L’argomento è: non interessano le vostre dispute, fate qualche cosa per noi.
Forse non siamo riusciti a rendere del tutto evidente che quella di Bersani non era solo l’unica proposta di governo possibile. Era la sola credibile, se le riforme vogliamo fare sul serio. Gira e rigira il problema resta sempre questo. È positiva la decisione di Napolitano di affidare a un gruppo di cosidetti «saggi» il compito non di sostituirsi alla sovranità del Parlamento ma di facilitare il confronto politico sul merito, sulle cose, i programmi, i bisogni del Paese. È una decisione saggia, evita il rischio di trascinare subito il Paese in una nuova rissa elettorale, senza modificare il «porcellum» che, come si è visto, condanna l’Italia all’impotenza. Il rischio è di fare la fine della repubblica di Weimar che, di elezione in elezione aprì la strada a Hitler. Stiamo attenti a come discutiamo tra noi. In questo momento la cosa più importan- te è tenere saldo e unito questo nostro partito il quale resta più che mai l’ossatura della Repubblica, la sua maggiore risorsa per non finire ai margini dell’Europa. Discuteremo ma io resto convinto che, nella sostanza, la linea seguita finora pagherà.
Ma che cosa pagherà? Questo è il punto. Pagherà per la ragione che quella di Bersani non era solo la richiesta dell’incarico di governo (siamo arrivati primi, quindi spetta a noi). Era di più. Era di più anche di un elenco programmatico. Era l’assunzione della responsabilità di proporre al Paese, a tutto il Paese (ai grillini come alla destra) un nuovo patto repubblicano, un pari diritto di cittadinanza. Voglio essere più chiaro. È evidente che non possiamo accettare un governo di coalizione che ridurrebbe le forze riformatrici all’impotenza e a subire i giochi di potere di Berlusconi. Sono d’accordo. Penso però che il nostro «no» è tanto più forte se si accompagna a ciò che questo Paese disperato chiede alla politica: un’idea unitaria e una guida. Io credo che non era solo per tattica che Bersani aveva offerto al segretario del Pdl Alfano di presiedere una commissione la quale, al fianco del governo di centro-sinistra, doveva occuparsi della riforma dello Stato, cioè della Casa di tutti.
Purtroppo il risultato elettorale non è mai stato discusso seriamente in tutta la sua gravità. Quel risultato non registrava solo una oscillazione di consensi grandissima (almeno 15 milioni di voti cambiavano bandiera) rivelava in tutta la sua pericolosità una vera e propria crisi di legittimità di tutto il sistema politico democratico.
Era più che un voto di protesta. Esprimeva una rabbia. Portava alla luce qualcosa di più profondo dell’antipolitica: una rottura di quei legami non solo economici ma storici, sociali e territoriali che garantiscono l’unità e quindi la forza di un Paese. Era questo il tema più profondo che Bersani aveva messo sul tappeto. Io ho sentito l’eco di quella grande questione che assillò anche le mie passioni giovanili e che ci induceva a guardare anche oltre il vecchio confine della sinistra. Parlo della ispirazione nazionale della sinistra italiana. Gramsci. La sua polemica contro la meschinità di una classe dirigente oscillante tra il fascismo e il falso liberismo del «salotto buono» milanese che non ha mai avuto una visione complessiva dell’Italia e che non si è mai fatta carico dell’interesse generale. Insomma il fatto che spettava alla sinistra scrivere una nuova pagina del Risorgimento affrontando lei i grandi problemi irrisolti.
Non voglio interpretare troppo Bersani. Non mi nascondo debolezze ed errori. Dico anzi che una grande politica, se c’è, non va sussurrata ma va proclamata con forza ed orgoglio. Aggiungo che non bisognava dare la sensazione che la proposta era solo un modo per rincorrere i grillini. Tutt’altro era il senso della parola d’ordine decisa alla unanimità della direzione del Pd, quella secondo cui non si può più governare senza cambiare, senza fare quelle grandi riforme anche della politica, e anche delle istituzioni sempre rinviate o negate. Ma cambiare – torno al punto – significa porre il Paese di fronte a una sfida di governo capace di ri- mettere in discussione il suo vecchio modo di essere: l’Italia delle rendite, delle consorterie, delle illegalità diffuse, del «capitalismo delle relazioni», e anche – diciamolo – del settarismo della sinistra. Sbaglierò, ma io la nostra iniziativa politica l’ho vista così. Non come il solito elenco di riforme che bisognerebbe fare ma come, finalmente, guardare in faccia il più difficile dei nostri problemi: quello che fa dell’Italia un Paese diverso e più fragile della Francia, della Germania, dell’Inghilterra e di tanti altri.
Uno strano Paese il nostro dove manca quella che è la condizione essenziale per fare grandi riforme nella normalità e senza scatenare rivolte. Parlo della reciproca legittimazione tra la destra e la sinistra. Dove per legittimimazione intendo che la destra deve smetterla di considerare la sinistra come un incubo comunista e la sinistra di considerare la destra come una minaccia di tipo fascista. E quando accenno a questa storia non ignoro le responsabilità di vecchi comunisti come me. Certo, conosco l’obiezione. La «impresentabilità» di un personaggio come Berlusconi. Ma a questa persona non si concede niente. Al contrario, si offre a tutto quel mondo della destra che esiste e che non può non esistere e che è formato da tante persone serie, il terreno per liberarsi da problemi che con la politica vera non c’entrano niente.
Dunque, la partita del cambiamento non è affatto finita. Essa richiede da parte del Pd una visione più ampia del Paese e non una divisione tra correnti. Spero che non ci faremo del male da soli.
L’Unità 03.04.13