La delusione c’è e si percepisce tutta. Si sente dal tono della voce, si vede dall’espressione tirata di chi ha passato ore a fare i conti con dei dati che gli sono piombati addosso come una doccia gelata. Ma mentre Pier Luigi Bersani parla emerge anche la sua determinazione a non arrendersi, a giocare fino in fondo questa partita. Per rispetto nei confronti degli oltre otto milioni di italiani che hanno votato Pd e per il senso di responsabilità di chi sa che se non viene garantita la governabilità, questo Paese corre un grosso rischio.
A metà pomeriggio il leader del Pd arriva alla Casa dell’Architettura di Roma per commentare il risultato elettorale, ma soprattutto per indicare quella che giudica l’unica possibile strada da seguire a questo punto: sfidare il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo a comportarsi come si richiede al partito più votato, che adesso è presente in Parlamento con 109 deputati e 54 senatori: «Fin qui hanno detto “tutti a casa”, ma ora ci sono anche loro, o vanno a casa anche loro o dicono che cosa vogliono fare per questo Paese loro e dei loro figli».
NESSUNA INTESA CON BERLUSCONI
La strada che vuole percorrere Bersani è stretta, in salita e piena di insidie, ma come avrebbe spiegato in una telefonata con Giorgio Napolitano è anche l’unica percorribile. Il leader del Pd ritiene infatti che non ci siano né le condizioni né un interesse generale a ripetere l’esperienza del governo delle larghe intese insieme al Pdl. Per questo, alla proposta di dialogo avanzata da Silvio Berlusconi, Bersani risponde a distanza con un no grazie, proponendo invece a tutte le forze interessate ad approvare una serie di riforme «per il cambiamento» e un altro sbocco politico alla crisi che si è aperta dopo queste elezioni: «Berlusconi e il Pdl? Si riposassero. Non intendo imbastire accordi basati su non si sa cosa, nessuno capirebbe che cominciassero dei balletti di diplomazia. Dobbiamo ribaltare lo schema. Adesso si discuta di cosa serve al Paese».
Per questo la proposta che Bersani mette sul piatto, pubblicamente, discutendo con gli altri dirigenti del Pd convocati in serata al Nazareno, nei primi contatti con il Quirinale in attesa delle consultazioni, è quella di un governo guidato da lui e che potrebbe essere definito di scopo (anche se il leader Pd continua a chiamarlo «di combattimento» e «per il cambiamento») che si presenti in Parlamento con un programma essenziale comprendente una serie di «riforme istituzionali, la riduzione dei costi della politica e una legge sui partiti, moralità pubblica e privata, difesa dei ceti più esposti alla crisi, impegno per una nuova politica in Europa per il lavoro».
Un programma che difficilmente potrebbe essere sostenuto dal Pdl e che invece, stando alle valutazioni di Bersani, potrebbe essere votato anche dai parlamentari del M5S. Ai quali Bersani, che parlando non cita mai Monti, potrebbe offrire anche la presidenza della Camera. Dice il leader del Pd: «Su questioni istituzionali siamo favorevoli a corresponsabilità. Tra l’altro M5S è il primo partito alla Camera, allora secondo i grandi modelli democratici ciascuno si prende le sue responsabilità».
Ovviamente, perché questo governo possa vedere la luce, è necessario che prenda la fiducia sia a Montecitorio che a Palazzo Madama. Dove ci sarà la prima prova del fuoco con l’elezione del presidente. In quel passaggio si capirà cioè se e quale maggioranza potrebbe prender vita al Senato. E, in base a quel risultato, si capirà quali successivi passi compiere. Bersani vuole proprio procedere passo dopo passo, ma sa che per garantire uno scenario di stabilità è necessario chiarire fin dall’inizio alcuni punti. Per questo a Grillo, che ha fatto sapere che il M5S deciderà come votare legge per legge, manda a dire che quest’impostazione «è apprezzabile ma è piuttosto comoda» e che i governi «funzionano con una fiducia». Che, certo, si costruisce se c’è un accordo sui programmi, ma va data prima di cominciare con i lavori. Basti questo per capire come sia complicato il percorso. Ma alternative, per Bersani non ce ne sono.
PRIMI MA NON VINCITORI
Il dato definitivo, comprensivo dei voti all’estero, consegna un Parlamento in cui il centrosinistra ha la maggioranza alla Camera (345 deputati) ma non a Palazzo Madama, dove la coalizione costruita attorno al Pd si ferma a 123 senatori, cioè 37 in meno di quelli necessari. «Chi non riesce a garantire la governabilità al suo Paese non può dire di aver vinto le elezioni. E quindi noi non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi».
La voce e l’espressione tirata sono quelle di chi ha passato la notte e poi ancora le ultime ore chiuso da solo in casa e poi con i più stretti collaboratori a seguire lo spoglio, ad analizzare i dati, a cercare le risposte di fronte a una situazione che non è quella che era stata prefigurata. Soprattutto per il pieno di voti incassato dal Movimento 5 Stelle. «La sfiducia nelle istituzioni e nella politica noi progressisti l’abbiamo vista da tempo e abbiamo cercato di rispondere introducendo un cambiamento nei meccanismi e nel nostro modo di essere, ma devo riconoscere che il problema ha nettamente sopravanzato le nostre ricette».
NON ABBANDONO LA NAVE
Il pensiero va alle primarie, pensate come strumento per colmare il divario tra cittadini e politica. E se qualcuno, anche dentro il Pd, comincia a contestare quel passaggio, comincia a sostenere che soltanto in apparenza era la soluzione ai problemi, Bersani manda a dire che «se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto saremmo stati in una situazione ancora più complicata». E poi ci sono anche un paio di altri messaggi che Bersani lancia a uso e consumo interno ed esterno al Pd, ora che qualcuno inizia ad evocare il tema delle dimissioni, a sostenere che bisognerebbe anticipare il congresso in primavera, a dire che se il candidato premier del centrosinistra fosse stato Matteo Renzi oggi saremmo in un’altra situazione. Dice Bersani: «Ho sempre detto che la ruota deve girare nel congresso del 2013. Io non abbandono la nave, dopodiché io posso starci da capitano o da mozzo». E poi: «Io più di fare le primarie e far scegliere tre milioni di persone non so cosa potessi fare. Può darsi, tutto è possibile, non vorrei però si oscurasse un problema più profondo. La dimensione europea e nazionale di impoverimento che la politica non riesce a gestire dà luogo a risposte sem- plificatorie, a questo bisogna rispondere a prescindere dalle persone».
L’Unità 27.02.13