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Bersani: investire in conoscenza o il Paese si «de-sviluppa»

Caro direttore, ho letto con attenzione l’appello della Crui. Le proposte sono condivisibili e trovano ampio spazio nel programma del Pd (www.partitodemocratico.it/universita), che parte proprio dai dati drammatici messi in evidenza dal «Corriere della Sera». Se toccasse a noi governare, la nostra azione prenderà le mosse da un’attenta rilettura del Rapporto Giarda, secondo il quale istruzione e ricerca sono le uniche voci del bilancio pubblico calate drasticamente (-5,4 per cento) negli ultimi vent’anni. Investire in conoscenza non è una scelta come un’altra: è la base della crescita culturale, economica e sociale di un Paese. Le «infrastrutture del futuro» hanno bisogno delle risorse per una netta inversione di tendenza. Ferma restando la lotta agli sprechi, vi sono altre le voci di spesa che possono dare un contributo da utilizzare per questo fine. Il cuore del cambiamento dell’università sono le persone. Anzitutto, gli studenti. Un giovane che vuole studiare e deve rinunciare perché non può permetterselo subisce una ferita profonda e irrecuperabile nei suoi diritti e nella sua dignità. Il suo dramma riguarda tutti, ci segnala che l’ascensore sociale si è rotto. O lo ripariamo, oppure accettiamo un destino di «de-sviluppo», di ignoranza diffusa e di iniquità sociale. La Strategia Europa 2020 prevede il 40 per cento di laureati tra i 30 e 34 anni. La media Ue è vicina al 35 per cento. In Italia siamo intorno al 20 per cento — in molte regioni ben al di sotto — e nell’ultimo anno i diplomati che si iscrivono all’università sono calati del 10 per cento. Oggi solo il 10 per cento dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, contro il 40 per cento in Gran Bretagna e il 35 per cento in Francia. Noi non ci rassegniamo a una società dove le possibilità non sono conquistate con il lavoro e la competenza, ma ereditate soltanto dai genitori come un bene di famiglia. Per questo proponiamo un Programma nazionale per il merito e il diritto allo studio, che ci porti in Europa anche da questo punto di vista: ora soltanto il 7 per cento dei nostri studenti riceve una borsa di studio, contro il 25-30 per cento di Francia e Germania. Le tasse universitarie devono essere più progressive e riportate nella media Ue, il che significa ridurle nettamente (siamo al terzo posto in Europa nella classifica europea). Veniamo ai docenti: l’università è il luogo di una gigantesca questione generazionale, da affrontare con decisione. Superati i trent’anni non si è più «ragazzini» e si merita rispetto e concretezza, non un limbo di precarietà senza prospettive. Perciò bisogna superare la paralisi del sistema rimuovendo subito gli attuali vincoli al turnover e stabilendo modalità di accesso alla docenza trasparenti e rapidi. Diciamo forte e chiaro che garantiremo la massima rigidità sulle attività gratuite nell’università, perché il lavoro deve essere sempre retribuito e dignitoso per tutti. Infine, la «macchina»: il cammino dell’autonomia è stato abbandonato per un ipercentralismo burocratico e verticista, invece di essere corretto nella direzione di un’autonomia responsabile. Per questo modificheremo profondamente la legge 240, per portare semplicità e diritti: oltre a modificare le norme su diritto allo studio, reclutamento e governance, smantelleremo le norme antiautonomistiche per liberare gli atenei da una gabbia burocratica che ostacola anche il rapporto con imprese e territorio. Per il rilancio dell’università, il Partito democratico non ha da offrire illusioni e favole, ma proposte concrete. Le politiche degli altri Paesi europei mostrano che per uscire dalla crisi servono risorse e riforme. Nell’Italia giusta, ridare dignità e speranza alle istituzioni della conoscenza non è una politica settoriale, ma la consapevolezza che il lavoro e lo sviluppo si costruiscono con i mattoni dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione.

Pier Luigi Bersani leader del Partito democratico

Il Corriere della Sera 19.02.13

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«L’appello dei rettori? In ritardo, ma da sostenere» Gli studenti: «Sono stati conniventi col governo», di Valentina Santarpia

«Va bene quella lettera, ma potevano pensarci prima». Non è proprio un coro, ma ci va molto vicino: la reazione al documento della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) è polemica. Non perché le sei priorità indicate dai rettori al futuro presidente del Consiglio non siano in gran parte condivise e condivisibili, ma perché sembrano «in ritardo» rispetto ai tempi e alle esigenze dell’università italiana. I rettori chiedono la defiscalizzazione delle tasse, la copertura totale delle borse di studio, l’abbattimento dell’Irap sulle borse post lauream e la defiscalizzazione degli investimenti delle imprese in ricerca. Ma anche il finanziamento dei posti di ricercatore e il blocco del turnover, la restituzione dell’autonomia alle università e l’incremento dei fondi all’1% del Pil.
«Bravi — applaude ironico Michele Orezzi, presidente dell’Unione degli universitari —. Stiamo sollevando questi problemi dal 2008, peccato che i rettori non siano scesi in piazza con noi allora. Il silenzio, che i rettori pensavano fosse coraggioso, ha portato gli atenei sull’orlo del default». «La Crui è sempre stata connivente con le scelte scellerate del governo — incalza Mario Nobile, di Link coordinamento universitario —. A partire dalla riforma Gelmini che i rettori hanno sempre appoggiato. Questi punti sono condivisibili ma troppo vaghi e generici».
«In realtà sono richieste di buon senso», analizza Giorgio Bolondi, professore universitario a Bologna ma anche più volte consulente di Palazzo Chigi. «Mi sembra ovvio chiedere di poter dedurre le spese per l’istruzione dei miei figli, quando mi è permesso scaricare quelle per la palestra — spiega Bolondi —. Più complessa la questione delle borse di studio: in un sistema ben funzionante ci dovrebbero essere più modi per finanziare gli studenti. E infatti il terzo punto va di pari passo: nel nostro Paese manca un investimento privato sugli studi, investimento che è difficile ottenere se non c’è una politica fiscale adeguata». Promosso anche il quarto punto: «Siamo tutti troppo vecchi nell’università», commenta Bolondi, che invece manifesta «dubbi» sul quinto punto, l’autonomia: «Va maneggiata con cautela». E l’aumento dei fondi? «Ben venga, perché non si tagli più su servizi, ricerca, sviluppo».
Infatti l’università non ha solo un problema di tasse e iscrizioni in calo: «Il punto è che bisognerebbe renderla più attrattiva — dice Antonio Marsilio, Cisl —. La situazione in cui ci troviamo oggi, con 20 università a rischio commissariamento, il diritto allo studio massacrato, è frutto della politica degli ultimi venti anni. Non dico che i rettori siano stati completamente assenti, ma sarebbe stata auspicabile maggiore forza». E anche la Cgil parla di necessità di «autocritica»: «Con più decisione avrebbero potuto evitare il disastro», secondo Mimmo Pantaleo. Meno morbido Alberto Civica, Uil: «Hanno avuto un atteggiamento superistituzionale in questi anni. E neanche adesso hanno il coraggio di criticare apertamente la riforma Gelmini: anche se nel punto cinque di fatto la bocciano, lo fanno in modo criptico, come se non volessero disturbare troppo. E in realtà quello è l’unico punto non economico della lettera: sembra che il vero problema dell’università siano le risorse, e non è così».
Però è vero che, chi quelle risorse ce le ha, funziona meglio: «Si, è vero che campiamo delle rette degli studenti — ammette Pierluigi Celli, direttore della Luiss —. Ma le risorse poi vanno amministrate nella logica dell’impresa, razionalizzandole e non spendendo, come succede negli atenei pubblici, il 95% dei soldi in stipendi».

Il Corriere della sera 19.02.13