A nove mesi dal terremoto che lo mise a terra nel maggio scorso, il polo emiliano di Mirandola è in ripresa. Stiamo parlando del primo distretto biomedico europeo, uno dei più importanti del mondo con Minneapolis negli Stati Uniti, che precede Francoforte, Losanna e Lund (in Svezia), e dove un centinaio di aziende italiane e internazionali, tra cui grandi marchi come Sorin, Bellco, Braun e Baxter, insieme a nomi meno noti, primeggiano globalmente in alcune aree cruciali del mercato: dalla dialisi alla cardiochirurgia. A spiegarne la vitalità, che le ha permesso di ripartire, c’è anche la sua origine: Mirandola è una Silicon Valley italiana che, come quella californiana, non nasce a tavolino, da un sogno dirigista, ma in un garage, da un farmacista-imprenditore geniale oggi ottantunenne, Mario Veronesi, che nel corso del tempo ha fondato cinque aziende (l’ultima nel 2003).
Alla base della ripresa c’è un tessuto imprenditoriale serio e credibile, nelle singole aziende come nell’insieme, che ha costruito un rapporto solidissimo, difficilmente sostituibile, con la clientela di tutto il mondo.
La vera minaccia, per chi è sopravvissuto al sisma per merito proprio, è di cadere per demerito altrui. La spending review sanitaria, giustamente finalizzata a ridurre gli sprechi, può danneggiare Mirandola nel momento in cui fissa tetti di spesa troppo bassi, tali da favorire solo i cost leader come i produttori asiatici e da scoraggiare le industrie italiane che sono leader in innovazione e in qualità. È vero, il distretto esporta il 50% nel mondo, ma per il resto dipende dal mercato italiano. E senza un mercato nazionale forte possono arrivare guai peggiori di quelli segnalati dalla scala Richter. Lo hanno capito i tedeschi, il cui governo si guarda bene dal deprimere il mercato interno. Perché anche in questo campo il dirigismo statalista fa male, ma l’assenza di politica industriale fa anche peggio.
Il Corriere della Sera 16.02.13