Giustizia a orologeria? Macché, Formigoni s’è dato la zappa sui piedi da solo. Giunge a due settimane dal voto lombardo la richiesta di rinvio a giudizio in quanto “promotore e organizzatore” di un’associazione a delinquere. Ma solo perché da oltre un anno il Celeste inventa una scusa dopo l’altra per evitare di presentarsi davanti agli inquirenti a spiegare quel lucrare potere e denaro dal suo incarico pubblico. Voleva assicurarsi l’immunità parlamentare, e difatti lo troviamo candidato nella lista Pdl al Senato, degno numero due subito dietro al pluri-imputato Berlusconi. Così, a furia di temporeggiare, si ritrova cucito addosso nel momento peggiore il capo d’imputazione che sintetizza plasticamente la natura del suo malgoverno, peraltro già ben nota ai cittadini: drenaggio di risorse pubbliche elargite con discrezionalità a favore di strutture sanitarie private, utilizzando delibere regionali scritte da funzionari sleali sotto dettatura dei suoi amici consulenti, che appartengono alla medesima consorteria. Questi ultimi, Daccò e Simone, intascavano decine di milioni dalle strutture beneficiate; e li adoperavano per finanziare l’attività politica del gruppo di Formigoni, oltre che per le sue vacanze dorate. Un andazzo perpetrato negli anni, una sorta di bottino addirittura teorizzato come se si trattasse di una logica conseguenza delle vittorie elettorali. Se agiva così la cerchia operativa del presidente Formigoni – figurano tra gli indagati il segretario generale della Regione e il direttore dell’assessorato alla Sanità – ovvio che il malaffare dilagasse poi negli altri settori del governo lombardo, dove ogni clan si sentiva autorizzato a compiere in proprio le sue scorrerie.
Non si contano gli attacchi di Formigoni a Repubblica, accusata di ordire una campagna mediatica per delegittimarlo dopo la caduta della giunta Moratti a Milano e poi del governo Berlusconi, proprio quando lui si riteneva pronto a ereditare la leadership nazionale del centrodestra. Smascherato nelle bugie plateali sulle vacanze ai Caraibi a scrocco dei consulenti foraggiati dalla Regione, sulle barche messe a sua disposizione in Sardegna, dove lui stesso ha “prestato” un milione al coinquilino Perego (anch’egli indagato) per acquistare dai soliti consulenti una villa che ne vale molti di più, il Celeste non si è reso conto che denigrare il giornalismo che cerca la verità condanna i potenti al discredito.
La sua tracotanza ha finito per accelerarne la caduta fino a condannarlo all’irrilevanza politica. La ramificata macchina del consenso che guidava con spregiudicatezza, cercando di limitare la voracità dell’alleato leghista, ora è in via di frantumazione. E lui, sconfitto anche nel tentativo di perpetuare attraverso la candidatura di Albertini la sopravvivenza della sua corrente, ha innescato lesto la retromarcia: soggiacendo a quel Maroni che solo pochi mesi fa osteggiava perché – parole testuali – “il nostro popolo non lo voterà mai”.
Ora gli elettori lombardi sanno qual è l’alternativa che li attende il 24 febbraio: da una parte il progetto di ricambio della classe dirigente corrotta, guidato dal candidato civico Umberto Ambrosoli; dall’altra il tentativo forzaleghista di conservazione di un potere che – secondo la magistratura – si è configurato come associazione a delinquere.
Formigoni pretenderebbe di trascinare nella subalternità all’egemonia leghista impersonata da Maroni il movimento di Comunione e Liberazione, imponendogli una svolta contronatura. «A che scopo guadagnare il mondo intero se perdi te stesso?», si era chiesto amaramente don Juliàn Carron, capo spirituale di Cl, di fronte al dilagare degli scandali. E pareva una domanda rivolta direttamente al leader politico che in modo così plateale aveva tradito i valori della sobrietà predicati a parole. Afflitto da narcisismo e vanagloria, Formigoni non è riuscito a fermarsi in tempo. Ieri sera vaneggiava ancora di manovre giudiziarie finalizzate a coprire lo scandalo Montepaschi, invece di rispondere nel merito delle accuse che da un anno e mezzo lo inchiodano. Ma la sua carriera politica, ormai lo sa anche lui, è giunta al capolinea.
La Repubblica 13.02.13