Sia pure continuando a difendere, per lealtà, la candidatura minoritaria di Gabriele Albertini in Regione Lombardia, ieri Mario Monti l’ha finalmente riconosciuto: non è possibile, per un liberale europeista come lui, mantenersi equidistante nella sfida all’ultimo voto in corso fra un candidato civico di centrosinistra, Umberto Ambrosoli, e il segretario della “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, Roberto Maroni. Dunque per Monti l’avvocato Ambrosoli, espressione della società civile lombarda, è “persona apprezzabile e apprezzata”. Mentre “esiste indubbiamente un pericolo Maroni in Lombardia”. Si tratta di un piccolo ma essenziale passo avanti, in vista di una scelta che ieri su Repubblicauno dei suoi principali collaboratori, Pietro Ichino, aveva già ben formulato: Ambrosoli e Albertini “sono entrambi dalla parte giusta, che è quella legata alla strategia europea dell’Italia. È Roberto Maroni che è dalla parte sbagliata, incompatibile non solo con l’agenda Monti, ma con la stessa Costituzione italiana”.
Con logica politica inoppugnabile, che Monti per ora elude ma che finirà speriamo per ammettere, Ichino ha legittimato la possibilità di una scelta disgiunta fra il voto nazionale e quello regionale: “In Lombardia esistono, oggi, due opzioni sul piano regionale entrambe compatibili con una scelta politica sul piano nazionale per la Lista Monti”.
Siamo di fronte a uno snodo cruciale per il futuro dell’Italia, e non solo per la definizione dei suoi futuri equilibri di governo: risulterebbe arduo qualsiasi tragitto politico di riformismo europeista nella disgraziata ipotesi che il cuore produttivo del paese remasse contro, affidato alla guida di una classe dirigente separatista e retrograda, portatrice di una visione esasperata di individualismo proprietario, reduce da un ventennio di affarismo e corruzione.
Nella sua disperata lotta per la sopravvivenza Berlusconi ha rinunciato alla salvaguardia del suo stesso partito, finendo per candidare il leghista Maroni alla regione Lombardia e il fascista Storace alla regione Lazio. Cioè due espressioni di una destra italiana la cui vocazione estremista si manifesta nella sua stessa leadership, riducendo all’irrilevanza le sue flebili voci moderate.
La fragilità strutturale della borghesia italiana ha finito per ridimensionare l’ambizioso tentativo di Monti, il quale confidava di isolare questa destra estremista sottraendole una quota significativa dell’elettorato conservatore. Capisco che sia amaro prenderne atto — la destra che voleva normalizzare gli si rivolta contro più aggressiva che mai — ma il premier è chiamato subito a una scelta di responsabilità. Viste le circostanze, egli non può rinviare al dopo voto, per attendismo o per mere convenienze elettoralistiche, un chiarimento da cui dipende il futuro dell’Italia.
Se Maroni è un pericolo, come dice Monti, allora non si può ignorare che un voto di pura testimonianza simbolica per Albertini in Lombardia — dove non è previsto il ballottaggio, e quindi governerà chi arriverà primo anche solo di un soffio — potrebbe determinare conseguenze dirompenti sull’intero Paese. La scelta del voto lombardo disgiunto non si configura quindi come un favore alla sinistra, la quale peraltro è già stata a sua volta costretta a compiere una cessione di sovranità in favore dell’avvocato Ambrosoli: uomo nuovo, lontano dai suoi apparati, candidato alla guida di un patto civico per il ripristino della legalità anche perché pesa a sinistra il ricordo degli eccessi di consociativismo simboleggiati dalla vicenda Penati.
Non a caso si esprimono per Ambrosoli personalità interne al progetto Monti come Ilaria Borletti Buitoni, Savino Pezzotta, e domani forse lo stesso Ichino, che sottolineano la natura emergenziale di tale scelta: impedire che la locomotiva dell’economia italiana, la regione crocevia della modernità culturale aperta all’Europa, finisca nelle mani di un piccolo partito contrapposto agli interessi nazionali. E più in particolare che la regione Lombardia venga governata da un ex ministro dell’ Interno sotto la cui gestione hanno prosperato il malaffare, la corruzione e la penetrazione della criminalità organizzata, senza che lui se ne accorgesse neppure quando coinvolgevano la dirigenza del suo stesso movimento.
La necessità di una riscossa civica in Lombardia passa attraverso una netta rottura di continuità con la classe dirigente affondata negli scandali. Piacerebbe che Monti spendesse una parola sulla ricandidatura nelle liste della destra lombarda dei Formigoni e dei Bossi, cioè dei protagonisti del forzaleghismo, anziché indugiare a tutela di piccole convenienze. Il blocco di potere dei vari Don Rodrigo che hanno scorrazzato impunemente per le contrade lombarde è in via di disgregazione, ma spera di trovare in Maroni il suo nuovo uomo forte. Servirebbe una parola chiara per orientare l’elettorato a debellarlo. Uno statista, un borghese lombardo di matrice manzoniana, dovrebbe riconoscersi anche da questa capacità di visione. Dopo il primo, timido riconoscimento di ieri, aspettiamo fiduciosi che la voce di Monti si levi più nettamente.
La Repubblica 11.02.13