Mentre cominciavo a scrivere queste note mi sono arrivate due notizie: la prima è una dichiarazione effettuata da un gruppo di candidati nelle liste civiche di Monti che fa capo a Lorenzo Dellai, ex presidente della Provincia autonoma di Trento, che suggerisce agli elettori di votare Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombardia anziché il candidato montiano Albertini; uno stesso suggerimento era già stato dato da Ilaria Borletti Buitoni, capolista montiano in Lombardia per la Camera dei deputati. La seconda notizia è che Monti ha da parte sua espresso un parere contrario rilanciando la candidatura di Albertini alla Regione, anche se non ha alcuna possibilità di riuscita e giova soltanto alla eventuale vittoria di Maroni.
Non è un bell’esempio di coerenza con gli interessi generali della democrazia e del paese. Ma veniamo ora ad un quadro più generale della situazione.
Mancano 14 giorni al voto e la gente si è stufata della politica e di questa campagna elettorale. Lo leggo su molti giornali, ma è proprio così?
A me non pare. Gli ascolti dei dibattiti televisivi sono alti; piazze e teatri dove parlano i protagonisti politici sono pieni; slogan, proposte, invettive, programmi, si incrociano; gli aspiranti a governare elencano i provvedimenti che intendono prendere nei primi cento giorni di governo. Le tifoserie sono mobilitate. Le persone che si incontrano si scambiano tra loro la domanda: come pensi che andrà a finire?
Epoi ci sono gli arrabbiati. La rabbia sociale non è un fenomeno soltanto italiano, c’è in tutta Europa, la rabbia, perché l’intero continente è in recessione, la recessione impone sacrifici, i sacrifici provocano sofferenza e rabbia, gli arrabbiati cercano i colpevoli, ma i colpevoli sono tanti e ciascuno sceglie il suo bersaglio.
Vi sembra che tutti questi fenomeni diano un quadro di indifferenza? Gli indecisi sono ancora molti ma negli ultimi sondaggi risultano in diminuzione. L’astensionismo è valutato tra il 20 e il 25 per cento, più o meno come da molti anni in qua. Quindi non è vero che la gente si è stufata. È vero invece che questa campagna elettorale è tra le più agitate e confuse dell’Italia repubblicana.
La conclusione è questa: il bipolarismo semplifica, il multipolarismo complica e la gente si disorienta. Non è indifferenza ma disorientamento, perciò la gente cerca a suo modo di semplificare. Il populismo è certamente una semplificazione. Avreste mai pensato un anno fa che sommando insieme Berlusconi e Grillo si arrivasse almeno al 40 per cento dei consensi registrati dagli ultimi sondaggi? Se non addirittura al 50?
Berlusconi ormai promette la luna a ruota libera; Grillo lancia il suo “vaffa” in tutte le direzioni, sui partiti, sulla politica, sull’Europa, sullo “spread”, sull’euro. Se sapesse che Aristotele enunciò la primazia della politica su tutte le altre attività dello spirito, il “vaffa” colpirebbe sicuramente anche lui.
È possibile che metà degli elettori possano affidarsi a questi Dulcamara? È una semplificazione del tipo “fai da te”; gli schieramenti in campo sono troppi, le differenze tra loro sono sofisticate, il “fai da te” sceglie i due populismi che, ovviamente, sono contrapposti tra loro.
Aggiungeteci la Lega che ha un solo obiettivo: conquistare la regione Lombardia e contrapporre la macro-Regione padana al resto d’Italia. Piemonte-Lombardia- Veneto detteranno legge al governo nazionale, quale che sia il suo colore.
Ma aggiungeteci anche Ingroia che guida una lista molto minoritaria ma che può essere determinante in alcune Regioni, tra le quali la Lombardia, la Sicilia, la Campania. Determinante non per vincere ma per far vincere Berlusconi e la Lega. Analoga in quelle Regioni è la posizione di Monti. A chi contesta ad Ingroia questo gioco a perdere per far vincere il peggiore, la risposta l’ha data Marco Travaglio venerdì scorso a “Otto e mezzo”: il risultato sarà un Parlamento ingovernabile e quindi una legislatura che durerà pochi mesi. Poi si tornerà a votare; forse allora saranno nate una nuova sinistra e una nuova destra, formate tutte e due da gente nuova, anzi nuovissima, alla politica.
Dopo 70 giorni di campagna elettorale che sta per chiudersi, queste belle menti auspicano altri cinque mesi di paese ingovernato e altri tre mesi di campagna elettorale. L’Italia resterà dunque senza guida fino al prossimo ottobre con la prospettiva che nasca a quel punto una maggioranza Ingroia-Grillo. Nel frattempo il mercato avrà messo in mutande la nostra economia e quello che avanza di industria e occupazione. Complimenti di tutto cuore. * * * Per completare lo scenario che sta davanti ai nostri occhi bisogna ora spostarsi dall’Italia all’Europa di cui siamo parte integrante.
Ci sono stati in questi giorni due fatti nuovi: il Consiglio dei primi ministri dei 27 Paesi aderenti all’Unione europea e il Consiglio d’amministrazione della Banca centrale (Bce).
Il Consiglio dei ministri e la Commissione si sono incontrati a Bruxelles e hanno discusso per 25 ore di seguito, senza dormire e mangiando qualche panino. Anche lì c’era molta confusione, ciascuno aveva i propri interessi da difendere, magari a scapito dell’interesse generale europeo. Alla fine è stato trovato un compromesso che si può riassumere così: gli interessi dei singoli Paesi membri sono stati tutti parzialmente soddisfatti e, infatti, le decisioni sono state votate all’unanimità come è previsto poiché ciascun Paese ha un diritto di veto e l’unanimità è quindi indispensabile.
Ma sono stati pagati due prezzi molto alti per ottenere questo risultato: il bilancio europeo, che avrebbe dovuto essere largamente aumentato, è stato invece tagliato rispetto al bilancio in vigore da sette anni.
Il Parlamento europeo, anch’esso quasi all’unanimità, si è però opposto a questo taglio e ha messo il veto a quel compromesso. La questione è dunque aperta ed è della massima importanza. Basteranno due cifre per dare l’idea concreta del problema: il bilancio federale degli Usa rappresenta il 22 per cento del Pil americano, il bilancio dell’Unione europea rappresenta invece l’1 per cento del Pil dei Paesi confederati.
Il secondo prezzo pagato a Bruxelles riguarda la politica di crescita economica, per altro da tutti auspicata a parole però, perché non un centesimo, non un provvedimento, non un’idea che rilanci la creatività è stata messa sul tavolo, se non la raccomandazione ad accrescere la flessibilità dei sistemi economici.
Monti è tornato a casa con un piccolo tesoretto di quasi quattro miliardi di euro. Non è molto ma nemmeno poco. Sul resto nulla poteva fare da solo e nulla ha fatto.
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Mentre queste cose accadevano a Bruxelles, a Francoforte Mario Draghi ha messo a fuoco una questione della massima importanza. Riguarda il tasso di cambio euro-dollaro che ormai da molti mesi si è apprezzato a favore dell’euro toccando il suo massimo di 1,36 dollari per euro giovedì scorso. Ma il giorno dopo è intervenuto Draghi ricordando che la Bce non può intervenire sul mercato dei cambi perché il suo statuto non lo prevede. La Bce ha due soli compiti: garantire la stabilità dei prezzi e assicurare al sistema bancario la necessaria liquidità.
L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro – ha detto Draghi – è un fatto positivo in questa fase di crisi economica perché è il segno che molti investitori acquistano euro dimostrando con ciò di avere fiducia nella moneta europea piuttosto che in altre valute. Tuttavia – ha proseguito – un eccessivo apprezzamento dell’euro potrebbe abbassare il tasso di inflazione al di sotto dell’attuale livello del 2 per cento che è ritenuto ottimale per la stabilità dei prezzi. Se da questo livello si dovesse scendere nei prossimi mesi verso l’1 per cento, ci si avvierebbe verso una fase di deflazione con un mutamento negativo nella stabilità dei prezzi. In questo caso, intervenire sul cambio estero rientrerebbe nei compiti statutari della Bce che è pronta a farvi fronte.
Risultato: dopo quell’intervento puramente verbale, venerdì il cambio è sceso all’1,33 rispetto al dollaro. Draghi ha confermato così la sua capacità tattica e strategica per salvaguardare il sistema dal punto di vista della politica monetaria, tenendo aperta la porta ai governi affinché prendano le necessarie decisioni per rilanciare l’economia reale. Purtroppo alla sagacia di Draghi non fa riscontro una altrettanto viva sensibilità dei governi per l’interesse generale dell’Europa.
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Mi permetto di suggerire ai lettori il film dedicato a Lincoln: racconta come e con quali prezzi la confederazione degli Stati Uniti d’America diventò uno Stato federale. Per realizzare quest’obiettivo, senza il quale la storia del mondo sarebbe stata completamente diversa, fu necessaria una guerra civile durata quattro anni con seicentomila morti, più della somma dei morti americani nelle due guerre mondiali del Novecento. E, come non bastasse, anche l’assassinio dello stesso Lincoln tre giorni dopo la vittoria e la firma della pace.
L’Europa ha già pagato un prezzo altissimo di sangue, versato in secoli di guerre tra gli Stati europei. L’ultima di esse ha fatto addirittura 41 milioni di morti tra militari, civili e genocidi orrendi. Da questo punto di vista abbiamo larghissimamente pagato e infatti da allora l’Europa ha trascorso quasi 70 anni in pace. Ma l’Europa federale ancora non è nata.
Non abbiamo molto tempo per farla nascere; l’economia globale prevede confronti tra continenti. L’Europa ha più di mezzo miliardo di abitanti, possiede un’antica ricchezza, un’alta vocazione tecnologica e scientifica, è bagnata da tre mari e confina con l’Asia e con l’Africa. Ha una forza potenziale enorme, l’Europa, ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più della metà di essi.
Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d’un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L’Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all’unanimità o con maggioranze altissime dell’80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più.
P.S.
È stato detto tutto il dicibile sulla proposta berlusconiana di abolire l’Imu sulla prima casa rimborsandone entro un mese l’ammontare pagato dai contribuenti. Ma non è stato ancora ricordato un punto di fondo: l’Imu varata nel dicembre 2011 è un’imposta patrimoniale progressiva: i proprietari d’una casa di lusso, con più elevata rendita catastale, situata in quartieri di prestigio, hanno pagato con aliquote progressive. Su 3,9 miliardi di gettito l’abolizione prospettata da Berlusconi sarebbe un grosso regalo ai proprietari di reddito medio alto e altissimo e un’elemosina di pochi spiccioli alla massa dei contribuenti. L’imposta progressiva una volta abolita si trasforma in un beneficio “regressivo” che premia pochi ricchi e fa elemosina a molti poveri. Questo è il vero e maggior difetto della velleitaria proposta berlusconiana.
La Repubblica 10.02.13