Cosa sta succedendo fra quel milione e 700mila giovani iscritti (in corso, fuori corso o in semplice parcheggio) nelle università italiane? La domanda si è diffusa, ma non ha lambito il dibattito elettorale, per merito della Stampa, che l’altro venerdì titolava a tutta pagina: “Fuga dagli atenei – Persi in dieci anni 58mila studenti”. Erano i dati del Cun (Consiglio universitario nazionale) che valutava al 17 per cento il calo nell’ultimo decennio: «Come se l’intera statale di Milano non esistesse più». Il Corriere confermava la crisi con un intervento di Guido Fabiani, rettore di Roma Tre: la crisi c’è ed è particolarmente grave nel Lazio. Qui La Sapienza è scesa in dieci anni da 132mila a 110mila studenti.
Ma tre giorni dopo il ministro dell’istruzione Francesco Profumo risolveva a modo suo il giallo: non si può parlare di fuga, perché l’anno di partenza, 2003, pativa il problema della “bolla”, creata dal passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento universitario. Ma quale bolla, gli replicavano altri studiosi su Europa (vedi l’articolo di Paola Fabi pubblicato martedì 5 febbraio, “Ecco perché sbaglia”).
Se c’è il problema della disaffezione agli studi? «Certo che c’è – risponde Giacomo Marramao, filosofo della politica a Roma Tre –. Insieme a Luciano Modica, che fu vice ministro all’università nel secondo governo Prodi, e ad altri colleghi, abbiamo chiesto al governo Monti un intervento urgente contro il degrado degli atenei: fisico, organizzativo, didattico, di dispersione territoriale, di non coordinamento tra scelte didattiche dei docenti e future scelte professionali degli studenti. Nessuna risposta».
Salvo la proposta newdealistica di Bersani, di un piano di messa in sicurezza dell’edilizia scolastica e ospedaliera. Siamo il paese della scuola di San Giuliano di Puglia, del Policlinico Umberto I, e anche dell’accampamento di gazebo, a forma di igloo o di tunnel, montato nel recinto della Sapienza, per ospitare didattica e ricerca di Giurisprudenza, causa lavori in corso da cinque o sei anni. Bersani è stato anche l’unico (poi sono venuti Giannino e Ingroia) a rispondere con un corposo fascio di idee alle dieci domande ai candidati premier, poste da docenti e ricercatori (www.dibattitoscienza.it): provvedimenti generali per l’università e la ricerca pubblica, ricerca privata, politiche energetiche, ciclo dei rifiuti, messa in sicurezza del territorio dai rischi sismico e idrogeologico, Agenda digitale e proposte per la diffusione della banda larga, legge 40 sulla procreazione assistita, iniziative nella scuola contro l’analfabetismo scientifico e tecnologico, ricerca biomedica e uso degli animali. Anche alcuni candidati come Marino, Ichino, Ilaria Capua hanno risposto alle questioni formulate dal Gruppo 2003 (www.scienzainrete.it).
Insomma, mentre i buoi fuggono dalle stalle, si comincia a capire che bisogna riprendere il dialogo tra scienza e politica, università e società. Tornare alla concretezza dei problemi, ma anche alle culture concrete. Il gagliardo Franco Ferrarotti, di cui si festeggiano in questi giorni i primi 90 anni, denuncia la nuova sociologia come «la scienza allegra dove tutti dicono la loro». (Come Bauman, sottinteso, che pretende di creare la società sull’acqua). Il battibecco ad Agorà fra Nunzia di Girolamo (Pdl) e la capolista pd in Veneto Laura Puppato, «se il Veneto sia o no ancora terra di contadini», ha provocato inattese rivelazioni, come quella di un indignato Ferdinando Camon, che si dichiara da sempre orgogliosamente contadino. Può forse nascere, e non solo in certe aziende del Nord, il tanto atteso agricoltore col camice bianco? Una facoltà di agraria, c’informa Marramao, che l’anno scorso aveva 200 iscritti, quest’anno ne ha 800. Segno che, sotto la sferza della realtà, le situazioni deformate da abbandoni, baronie, crisi finanziaria, tendono ad autocorreggersi.
A Genova il rettore Giacomo De Ferrari, tagliando spese fino a ieri tabù, racimola 300mila euro da destinare in tre anni a “piccoli stipendi” per aiutare borsisti, ricercatori, studenti in flessione di risultati per sfiducia. Vien da piangere pensando che proprio oggi un decreto del governo taglierà l’importo delle borse di studio, specie nel Sud: dove ieri è stata occupata l’università di Cagliari, la prima a scendere in lotta. «La sfiducia e l’incertezza che si manifestano nel corso di laurea, dipendono pure – nell’analisi di Marramao – dalla perdita di ruolo e di definizione sociale di molti mestieri. La telematica ha aperto immensi campi nuovi, ma non producono adeguata occupazione, perché digitare di continuo senza acquisire un sistema di nozioni, cioè una cultura, serve a poco. Per servire, occorrerebbe incentivare la creatività, di cui i ragazzi hanno perso le tracce per strada, scuole medie, licei, università. Senza creatività, i nostri laureati applicheranno software creati da altri. La crisi dei brevetti si sa. I giovani percepiscono che spesso diamo loro una speranza che non crea futuro. Eppure chimica, fisica, biologia, medicina, genetica esprimono ancora personalità e maestri di livello internazionale: i protocolli di cura di Veronesi sono applicati in tutto il mondo, Usa compresi. Ma debbono autopromuoversi: le istituzioni, dalle scuole agli istituti di cultura all’estero, stanno ferme. Nella campagna elettorale non c’è un “progetto Italia”, ove si eccettui quello ricordato di Bersani. Ma non ho visto adeguato riscontro sulla stampa questi sforzi di ridarci un progetto. Così non è un “giallo” il calo degli studenti, fuggono perché l’università declina insieme alla società. E non si raddrizzerà fino a quando, come insegnano Francia e Germania in tempo di default, non faremo poderosi investimenti nella ricerca per far ripartire la crescita. Dalla ricerca elementare a quella più sofisticata. Al Dams, l’ottima creazione di Squarzina e Micciché, chi si laurea sa che teatro, cinema, danza si fanno mettendo insieme autori, scenografi, sceneggiatori, montaggio, regia, doppiaggio, colonna musicale, luce, costumi, eccetera. Così si acquisisce la flessibilità per potersi convertire in qualsiasi impegno professionale, con la rapidità richiesta. Vale per i computer, come per l’economia e la matematica. Gli strumenti econometrici acquisiti vent’anni fa – ne converrà anche Monti – non servono più, per fare il salto nel nuovo occorre che umanesimo scienza e politica suonino insieme».
da Europa Quotidiano 07.02.13
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“Quell’ateneo scomparso”, di Paola Fabi
Più di cinquantamila iscritti in meno in dieci anni. È stato il Consiglio universitario nazionale a lanciare, la scorsa settimana, l’allarme sulla grande fuga dalle università italiane. Dall’anno accademico 2003-2004 (anno in cui entrò in vigore la riforma del 3+2) gli immatricolati sono scesi da 338.482 a 280.144 (anno 2011/2012).
Un calo di 58mila studenti, pari al 17 per cento in meno. Come se in un decennio fosse scomparso un intero grande ateneo. Un trend che riguarda tutto il territorio nazionale e la gran parte degli atenei. E ai diciannovenni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, la laurea sembra interessare sempre di meno: le iscrizioni sono calate del 4 per cento in tre anni, passando dal 51 per cento nel 2007-2008 al 47 per cento nel 2010- 2011. L’Italia, inoltre, nel 2012, è risultata al 34esimo posto, su 36 paesi che aderiscono all’Ocse, per il numero dei laureati.
Solo il 19 per cento dei 30-34enni possiede una laurea, contro una media europea del 30 per cento (al 2009). Il 33,6 per cento degli iscritti all’università, infine, è fuori corso mentre il 17,3 per cento non è attivo e non fa esami.
da Europa Quotidiano 08.02.13