È l’anno zero del capitalismo italiano. L’industria pubblica o para-pubblica è alle corde, schiacciata dai debiti e dalle tangenti. La finanza privata è allo stremo, macchiata dai trucchi contabili e dall’azzardo morale. Mettiamoci nei panni di un investitore estero: perché fare affari in un Paese del genere? È ancora nebuloso lo scandalo che investe l’Eni, e tutto da dimostrare. Ma era scontato che l’oscura vicenda degli appalti per i gasdotti in Algeria, già costata la testa ai vertici della controllata Saipem, avrebbe finito per coinvolgere anche il «ceo» della controllante. Paolo Scaroni giura la sua totale innocenza. Toccherà alla magistratura dimostrare il contrario, con prove certe e inoppugnabili. Ma è un fatto, dopo il terremoto di Tangentopoli e la maxi-tangente Enimont dei primi anni ’90, il colosso dell’energia italiana torna pesantemente sotto i riflettori di una Procura. È una pessima notizia, per un gruppo che ha 75 mila dipendenti, un giro d’affari di 110 miliardi e una capitalizzazione di Borsa di 62 miliardi.
Ma quello che colpisce, in questo sconfortante «sommario di decomposizione» del romanzo degli gnomi tricolori, è il quadro d’insieme. L’inchiesta sull’Eni precipita in un mercato domestico devastato. Restiamo nell’area delle ex Partecipazioni Statali. Il terremoto che ha squassato Finmeccanica, altro ex gioiello dell’industria nazionale che vale oltre 5 miliardi in Borsa, quasi 18 miliardi di ricavi e oltre 70 mila dipendenti, è ancora in pieno corso. Il presidente Giuseppe Orsi è indagato per presunte mazzette sulle forniture degli elicotteri Agusta-Westland. Il suo predecessore Pier Francesco Guarguaglini è stato prosciolto, ma nessuno può dimenticare le «gesta » della moglie, Marina Grossi, nella controllata Selex.
Il buco nero della Saipem, scoperchiato la scorsa settimana, non è meno grave di quello in cui ora rischia di sprofondare l’Eni: non si era mai vista una grande azienda quotata che dalla sera alla mattina lancia un profit warning in cui gli utili attesi crollano del 70%, mentre una mano misteriosa vende una quota del 2,2% un attimo prima che il titolo crolli di schianto e la società bruci un terzo del suo valore.
Il disastro dell’Alitalia è, alla lettera, sotto gli occhi di tutti. Plasticamente rappresentato dal relitto sbianchettato dell’Atr preso in leasing da Carpatair. Largamente annunciato dal 2008, quando Berlusconi in veste di biscazziere si giocò la compagnia di bandiera alla roulette russa del voto. Lui vinse le elezioni, noi ci abbiamo perso 4 miliardi. La difesa dell’«italianità» non è servita a niente. I «patrioti» radunati da Passera e da Banca Intesa sono in fuga. I francesi sono pronti a comprare, ma al prezzo simbolico di 1 euro (all’epoca avrebbero sborsato quasi 2 miliardi). Oggi l’azienda non ha cassa per pagare gli stipendi. O ricapitalizza, o porta i libri in tribunale. E che dire di Telecom, che si balocca tra rinvii sulla rete a banda larga e bluff sulla vendita di La7, mentre gli azionisti di Telco sono indecisi a tutto e i debiti corrono oltre i 30 miliardi?
La finanza privata offre di sé uno spettacolo persino più osceno. Il «groviglio armonioso» del Montepaschi è un verminaio pauroso, dove per cinque anni
una losca «banda del 5%» ha lucrato fondi neri, nascosto documenti, spalmato perdite. Indisturbata dagli ispettori di Bankitalia, o forse pilotata dai referenti politici. Fonsai è un pozzo senza fondo, che non finisce mai di far emergere le sue vergogne: la famiglia Ligresti l’ha spolpata fino all’osso, portandola al fallimento e lucrando consulenze per 42 milioni nello stesso esercizio in cui la compagnia perdeva quasi 1 miliardo, e ora il patriarca Don Salvatore giudica «abnorme » la richiesta di risarcivantaggio mento avanzata nei suoi confronti dal commissario. Bpm, più che una banca, si conferma un comitato d’affari, dove il «Metodo- Ponzellini» produce ancora i suoi danni e gli arresti per corruzione e mafia continuano.
Per fortuna l’economia industriale e finanziaria italiana non è tutta così. Ci sono imprese che ogni giorno combattono a viso aperto sulla frontiera della qualità e della competitività. Ci sono banche che non falsificano i bilanci, anche se lesinano gli impieghi. Ma senza cadere nel qualunquismo, l’immagine complessiva dell’establishment è purtroppo questa. Nella migliore delle ipotesi, un capitalismo di rendita, che accumula e non investe. Nella peggiore, un capitalismo di rapina, che depreda e non paga dazio.
Un sistema sempre più povero, debole e asfittico. Tendenzialmente corrotto o comunque corruttibile. La Grande Industria si va ormai estinguendo, e nessuno si interroga su quale sia il destino di un Paese che coltiva ancora il mito arcaico del «piccolo è bello» o si crogiola nel sogno patetico della «filiera del turismo». La Borsa è ridotta a parco buoi o a modesto saloon, dove non si va per reperire capitale di rischio a beneficio delle aziende, ma per fare speculazioni mordi e fuggi a dei soliti cowboy. Le regole vengono facilmente violate, le autorità di Vigilanza vengono sistematicamente aggirate. Consob e Bankitalia, cani da guardia del mercato, diventano loro malgrado cani da salotto del potere.
Dunque, torniamo alla domanda cruciale: se foste un investitore estero, oggi, investireste in Italia? La risposta la danno i fatti. L’indice Ftse Mib e lo spread che risale oltre quota 300. E poi le grandi multinazionali che si tengono alla larga dal Belpaese, alla faccia di Berlusconi che si ricandida promettendo i condoni tombali e a dispetto di Monti che aveva assicurato l’ingresso sicuro dei colossi stranieri dopo la riforma del mercato del lavoro. C’è un’intera «classe dirigente» che, se mai ce l’ha avuta, sembra aver smarrito la coscienza di sé, della sua missione, della sua responsabilità. La bancarotta etica che sconvolge il capitalismo è speculare alla questione morale che travolge la politica. Se mai vedrà la luce, un nuovo governo nato dall’alleanza tra progressisti e moderati potrebbe ripartire da qui. Basta con la danza macabra intorno al totem ideologico dell’articolo 18. Abbiamo già dato.
La Repubblica 08.02.13