E’ chiaro che in una crisi organica come quella italiana, che coinvolge istituzioni e società, cultura ed economia, poteri e forme dell’immaginario, rimangono aperte le possibilità di rovinose cadute. Che al termine del lavoro «sporco» affidato al governo tecnico, invocato per bloccare l’emergenza con in- derogabili misure di risanamento, potesse furtivamente ricomparire lo spettro beffardo del Cavaliere, con il suo puerile gioco che pretende di accarezzare l’inverosimile come se nulla di tragico fosse accaduto, era un rischio evidente.
Un rischio evidente sin dalla gestazione della «strana maggioranza». Ma alla sinistra, in una giuntura che annunciava catastrofi incombenti, non si ponevano altre alternative. Stare nella crisi e cercare di indirizzarla verso sbocchi progressivi era la sola maniera per non soccombere e proteggere quella parte di società che è vulnerabile e vive di lavoro. Se oltre il 30% degli elettorali è indeciso o orientato all’astensione, se, tra coloro che si recheranno alle urne, le formazioni populistiche afferrano il 50% dei consensi e se, infine, dopo la comparsa da Santoro in tv Berlusconi, che è il principe dei giustizialisti e perciò in quell’atmosfera inquisitoria grottesca ricaricava le spente batterie, ha mostrato segnali di inopinata ripresa ciò significa che i focolai di crisi sono ancora operanti e che le derive non sono scongiurate.
La crisi italiana è così grave e profonda che il suo decorso mostra dei prolungamenti nello scenario europeo. La paura di un contagio italiano, e quindi di una destabilizzazione dell’economia e delle istituzioni continentali, è molto forte in Europa. A nessuno sfugge che un terribile ritorno in scena del Cavaliere, cioè di un blocco populista con venature fasciste che spaventano gli stessi capi del Partito popolare pronti ormai a misure di espulsione, indurrebbe le cancellerie europee (e non solo) a imporre una severa quarantena per l’Italia. Un commissariamento, con una prolungata limitazione della sovranità statuale, sarebbe il prezzo prevedibile di un ritorno di Berlusconi, o di una caduta nella ingovernabilità.
Con il 35 per cento dei consensi che gli attribuiscono i sondaggi, e in virtù della legge elettorale che al primo piazzato dà il 55 per cento dei seggi, la coalizione di Bersani è in grado di garantire la governabilità, di eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Però questo elemento di rassicurazione non deve cancellare le molteplici zone oscure che permangono. Da quando è segretario, Bersani ha recuperato il lascito più raffinato del berlinguerismo politico, e cioè la consapevolezza che nelle fasi di transizione, e questo vale soprattutto per un Paese a fragile ossatura democratica e a sbiadito civismo per la lealtà labile della borghesia, l’assillo principale della sinistra deve essere quello di impedire il connubio tra il centro moderato e la destra populista.
Sulla base di questa lezione storico-politica di Berlinguer, Bersani ha favorito dapprima l’erosione del potere belusconiano incoraggiando la fuga di Fini dalla maggioranza, e poi ha costruito la sua prospettiva di governo, condita con una strategia dell’attenzione verso un centro competitivo ma non alternativo alla sinistra, e quindi sganciato dal populismo per ragioni di cultura politica e non di semplici meccaniche elettorali. Finché perdura una fase di incerta transizione, con scenari da incubo per la minaccia di una destra impolitica, la sinistra non può che dialogare con le forze del costituzionalismo moderato, senza che ciò si traduca in automatiche formule di governo.
La messa in sicurezza della malconcia democrazia italiana non può limitarsi al terreno politico. Il ruolo del sindacato, dei soggetti sociali è centrale nel recupero di un orizzonte di nuova statualità in grado di restituire coesione e crescita, innovazione e diritti, decisione e rappresentanza. È chiaro che senza questa visione, politica e sociale insieme, non si cura la malattia della democrazia. Il ronzio fastidioso della vita lacerata dalla crisi sociale non lascia spazio alle fughe pittoresche che Berlusconi tenta per fare della politica l’arte della dimenticanza. Il fastidioso senso del tempo, la percezione di un baratro sfiorato e l’incubo di nuove povertà non si cancellano con i ritrovati della comunicazione. La favola non può sospendere il giudizio critico di chi avverte che con il Cavaliere ancora al potere non ci sarà pace nei mercati globali, mancheranno soldi per stipendi, pensioni, servizi, rimedi alla disoccupazione e al declino.
E per questo gli elettori non cadranno di nuovo nel gioco di simulazioni, inganni, travestimenti del «cappellaio matto» per il quale tutto pare iniziare oggi per la prima volta, in un mondo abitato da persone senza ricordi. Sofferenza, disincanto, rancore verso Berlusconi resistono alle cariche di mistificazione proprie del marketing. La cura dal rapimento dei ceti popolari per le favole è sempre in una politica che guarda al conflitto sociale e coltiva la speranza che anche nell’elettore più distratto non sia spento il principio di Hume, quello per cui il bene pubblico a nessuno rimane mai del tutto indifferente.
L’Unità 07.02.13