Difficilmente un Paese impoverito può permettersi un buon sistema universitario. E difficilmente un Paese con un cattivo sistema educativo può sollevarsi dalla crisi. Sta in questa tenaglia il segno — uno dei tanti, purtroppo — della preoccupante situazione italiana, messo in rilievo dal recente documento del Consiglio universitario nazionale. Potremmo anche aggiungere che difficilmente un Paese poco acculturato può produrre una buona politica: un elettorato consapevole (lo vediamo in questi giorni quanto pesi il livello di istruzione sulle intenzioni di voto). Una classe dirigente all’altezza dei propri compiti. Un’amministrazione competente ed efficiente. E il cerchio si chiuderebbe.
Le 58mila matricole in meno nel 2011 rispetto al 2003 — il dato che ha scioccato perché equivalente alla popolazione di un intero grande ateneo — è in realtà solo la punta di un iceberg di proporzioni ben più ampie. Occorre aggiungere i 1.195 corsi di laurea eliminati negli ultimi sei anni, solo in parte cancellati per una sacrosanta razionalizzazione e sempre più costretti all’estinzione per assenza di fondi e di docenti. Il taglio feroce dei fondi alla ricerca libera, messa letteralmente in ginocchio dopo che già faticava a rimanere in piedi. La riduzione — davvero inqualificabile — delle borse di studio… D’altra parte noi siamo il Paese che destina al settore militare oltre 20 miliardi di euro all’anno e appena sei alla propria università. Il che ci colloca un buon 30 per cento sotto la media Ocse.
Sul Giornale di Berlusconi la notizia del calo delle matricole era stata salutata con gioia da un articolo, tanto sciagurato quanto rivelatore, del vice-direttore, intitolato Atenei, scappano in 60mila. Era ora: meglio pochi e buoni, nel quale, dopo aver liquidato l’“allarme” come «depravazione dell’egualitarismo » e «pianto dei fanatici dell’università per tutti e a tutti », si affermava che «questi dati non sono preoccupanti, no. Sono confortanti. Ci spingono più vicini agli altri Paesi civili». Non si diceva che la percentuale media di laureati nei Paesi dell’Ocse è quasi il doppio della nostra, penultimi, seguiti solo dal Portogallo. Né si informava che l’obiettivo di laurea stabilito dal ministro Gelmini per il 2020 ci copriva di vergogna di fronte all’Europa (che si propone di giungere a una percentuale pressoché doppia), collocandoci come fanalini di coda, al livello della Romania.
Non sono però solo le scelte dissennate dei governanti. Non basta un “ministero dell’ignoranza” a spiegare l’esodo. Dietro la grande fuga di questi anni c’è l’effetto congiunto di una pessima deriva economica e sociale e di una cattiva cultura dominante. In primo luogo l’effetto del progressivo, e negli ultimi tempi sempre più rapido, impoverimento del ceto medio e del lavoro dipendente, che avevano alimentato la lunga parentesi dell’università di massa. E soprattutto la crescita della diseguaglianza: quella che in termini sociologici si chiama l’“allungamento” della nostra composizione sociale, con una piccola porzione di popolazione che ha continuato a salire e in qualche caso è schizzata verso l’alto, nella sfera esclusiva del “lusso”, e una grande massa che è scivolata in basso, nella fascia maledetta dell’indigenza. I pochi possono permettersi la Bocconi, i master, la specializzazione negli Stati Uniti, e i troppi che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, figurarsi a pagare una tassa d’iscrizione che è andata aumentando fino ad essere tra le più elevate in Europa. Una società duale, giustificata da un senso comune dominante che si focalizza sulle eccellenze — in molti casi sulla “retorica dell’eccellenza”, quasi sempre identificata con il “privato” — , sul primato delle pratiche d’èlite (come per i corpi militari), perché il resto è poco rilevante, sul piano del consumo, del riconoscimento sociale, e dei progetti di vita. Non vale neppure più la pena sostenerlo con i contributi al “diritto allo studio”.
Questo sul versante del deficit di “domanda” di istruzione universitaria. E poi c’è il problema dell’“offerta” (cosiddetta formativa, con termine riduttivo). Diciamocelo sinceramente: il passaggio alla “triennale”, tanto decantato, non ha aiutato a valorizzare la laurea. Ne ha alleggerito il contenuto di sapere. Ha contribuito a ridurne la complessità, con una falsa promessa di professionalizzazione e un’effettiva delimitazione del campo conoscitivo (altro che universitas!).
Forniamo un caleidoscopio di apparenti specializzazioni, in una fantasmagoria di titoli, che illudono sulla possibilità di una più facile collocazione sul mercato del lavoro, e che spesso ti collocano in un’area di parcheggio post-laurea sempre più lunga. Chi ha pratica di insegnamento lo sa bene.
Non sono choosy i miei studenti. Spesso si accontentano anche di lavori pagati al di sotto della decenza, e lontani anni luce dal titolo di studio acquisito. E tuttavia restano in apnea a lungo dopo la laurea: Alma-Laurea, nel suo ultimo rapporto, ci dice che dopo un anno meno della metà dei laureati trova un lavoro. E di quelli che l’hanno trovato, solo un terzo ha un impiego stabile. Se non si avvieranno robuste politiche di redistribuzione del reddito e di sostegno all’economia, da una parte, e se non si metterà mano a una sostanziale ristrutturazione dell’insegnamento universitario pubblico e della sua filosofia, dall’altra, è pressoché inevitabile che la spirale a scendere prosegua. Per i giovani. E per l’intero Paese.
La Repubblica 07.02.12