attualità, politica italiana

Critica al "nuovismo" di cui si vanta Monti, di Franco Monaco

Gli osservatori hanno abbondantemente segnalato le metamorfosi di Monti, la sua relativa, sorprendente berlusconizzazione. Sia nel suo stile comunicativo, sia nella sua repentina conversione a politico prodigo di facili promesse. Un mutamento dagli esiti francamente caricaturali. Come non rammentare l’enfasi sulla sua sobrietà e sul suo rigore calvinista, sul suo profilo di «civil servant» e di «riserva della Repubblica» alieno dalle miserie e dalle debolezze del politico tradizionale e agli antipodi del calco berlusconiano?
Un profilo che finalmente ci riabilitava agli occhi del mondo dopo lunghi anni nei quali il nome dell’Italia era stato associato ai peggiori luoghi comuni su di essa e sui suoi atavici vizi, semmai esasperati dal moltiplicatore e dall’unicità rappresentati dal Cavaliere? Ma preme, ora, isolare soprattutto un altro elemento: la leggerezza e il nuovismo di Monti.
Da quando egli ha fatto il suo ingresso in politica, ha rivendicato la novità della sua iniziativa in opposizione ai «vecchi partiti». Sostanzialmente quasi tutti gli altri. Più volte egli ha esibito con orgoglio la circostanza di avere allestito una offerta politico-elettorale nel giro di poche settimane. La stessa battuta sul Pd, che sarebbe nato’ ne11921, con palese allusione all’atto di nascita del Partito comunista, si inscriveva in quello schema di ragionamento, teso appunto a rimarcare la presunta, virtuosa differenza della sua creatura.
Dal Pd, giustamente, si è reagito con sdegno a fronte di una battuta effettivamente maliziosa e di cattivo gusto. Persino intellettualmente disonesta, che di proposito ignorava la novità del Pd e lo stesso travaglio dei suoi lontani antenati. Si pensi solo alla storica svolta della Bolognina e, su altro fronte, alla chiusurà di una formazione quale la Dc e al percorso seguito poi dai cattolici democratici. Una transizione niente affatto indolore se solo si pensa al dramma personale e politico di uno dei suoi protagonisti: Mino Martinazzoli. Per tacere dell’innovazione culturale e politica rappresentata dall’Ulivo di Prodi e di Andreatta.
Per farla breve: Monti rimuove d’un tratto le discontinuità coincise con alcune delle pagine più intense e più alte della democrazia italiana a cavallo della fine del 900. Ma è persino inutile evocare quelle pagine. Più semplicemente, basta replicare a Monti con la convinzione che ciò che egli rappresenta come una virtuosa novità è per noi un vistoso limite. Davvero si può andare fieri di una iniziativa elettorale improvvisata in due o tre settimane intorno a un uomo e a un’agenda concepita per gestire una congiuntura?
Davvero sta in questo metodo il nuovo e il buono della politica? Forse noi saremo un po’ all’antica, ma siamo affezionati all’idea esattamente contraria: in politica si fanno cose serie e utili se si percorre la sequenza opposta. Prima la visione di un certo respiro, che di sicuro trascenda una tornata elettorale; poi ci si dota di uno strumento non occasionale e precario come un partito politico (sì, un partito politico); poi ancora si elabora un programma e solo infine si appronta una offerta elettorale. Il Pd avrà pure mille difetti e non sarò io a tacerli.
L’ho fatto spesso e con spirito critico. Ma nei suoi cinque anni di vita ha provato a dotarsi di una qualche elaborazione ideale-politico-programmatica, di una organizzazione radicata sul territorio, di una classe dirigente al centro e in periferia. Lo ha fatto impegnando tempo e fatica, coinvolgendo centinaia di migliaia di militanti e milioni di elettori spesso chiamati a decidere con le primarie.
Lo ha fatto attraverso una miriade di incontri, di discussioni, di deliberazioni, persino con i riti propri (d’accordo, anche troppi) di un organismo collettivo a base democratica. Perché questa è la democrazia partecipativa. Comprensibilmente Monti si irrita se qualcuno rappresenta la sua compagine come «rotariana» e affollata di «notabili a disposizione», ma è un fatto che i suoi candidati siano stati tutti selezionati per cooptazione da lui, da Casini e Fini.
Non esattamente il nuovo, costoro. A sua volta egli dovrebbe portare rispetto per chi ha seguito un metodo opposto e, alla prova elettorale, si è preparato attraverso.cinque lunghi anni di lavoro collettivo e di coinvolgimento popolare. Pena dare ragione a chi – a proposito di altri – aveva coniato la tesi secondo la quale, pur senza essere ostili alla democrazia, si può essere estranei ad essa. Ancora un dettaglio. Confesso di avere osservato con un certo stupore l’espressione quasi compiaciuta del ministro Riccardi che stava a fianco di Monti a Napoli quando questi pronunciava l’infelice battuta sul Pd nato nel 1921.
Riccardi è storico di valore, allievo di Scoppola, fondatore e leader della Comunità di Sant’Egidio: possibile che non abbia provato imbarazzo nell’ascoltare parole tanto fuori luogo, che fanno torto alla verità delle cose e persino all’intelligenza di chi le pronunciava? Possibile che, appunto da storico del movimento cattolico, non avverta lo stridente contrasto tra la celebrazione di un’agenda e dí un uomo, e le grandi pagine del cattolicesimo politico da Sturzo in poi, tutte accomunate semmai dallo stigma della partecipazione popolare, l’opposto dell’elitarismo, del dogma liberale e del mito del leader salvatore della patria?
In una parola, più che la perfidia e la grevità di una battuta, mi impressiona e mi fa problema la leggerezza e il nuovismo di un uomo dal quale, effettivamente, non ce lo saremmo atteso. Ma evidentemente ci eravamo sbagliati nel giudizio: non di necessità un buon commissario, Ue è anche un buon politico e uomo di governo cui si richiedono altre e più rare qualità, a cominciare dalla visione e dal rispetto per gli altri.

da L’Unità