Non si vedono neanche gli occhi, coperti da un paio di occhiali anni Ottanta. Solo un velo nero che ondeggia trasportato da ballerine color cuoio tra un atleta romano nudo e una Torah sottovetro. Baya non è l’unica visitatrice di stretta osservanza islamica nei corridoi del Bardo. Il museo fiore all’occhiello della Tunisia, ma anche cruccio della nuova minoranza rumorosa degli ultrà delle fede che assediano il paese, è punteggiato di donne in niqab accompagnate da uomini con barba d’ordinanza. E poi guide velate e studentesse con l’hijab, il copricapo delle musulmane un po’ meno intransigenti. «Vede, per me avere queste donne qui dentro è un successo», spiega Soumaya Gharshallah. Trentacinque anni, un bambino di tre, è l’unica curatrice di museo della Tunisia e una delle poche nel mondo arabo. La chiamano quella del ‘museo plurale’. Aggettivo che suona quasi blasfemo in un paese dove cresce sempre di più la voce di quelli che a chi reclama democrazia e dialogo rispondono con il pensiero unico di Dio.
La straordinaria collezione di mosaici romani, paleocristiani, ebraici e islamici ha appena riaperto le porte a Tunisi dopo un grande restauro che ha consentito il raddoppio della superficie espositiva e un restyling che ha consegnato il Bardo alla lista dei musei da vivere e non solo da visitare. Ma vivere un’arte che parla di quattro religioni diverse può essere anche una rivoluzione. Ed è questa la battaglia che
sta riuscendo a Soumaya.
Direttore, mentre voi inauguravate il nuovo Bardo i salafiti a pochi chilometri da qui, a La Marsa, assaltavano una mostra di arte ‘degenerata’. Avete avuto paura anche voi? Crede che le opere esposte qui dentro possano rischiare il destino dei Buddha di Bamyan distrutti dai Taliban in Afghanistan?
«Per un momento abbiamo avuto paura. Non per la sicurezza qui dentro: accanto c’è l’edificio della Corte costituzionale e non manca lo schieramento di polizia. E neanche per la mia sicurezza personale. Non è questo il punto. La paura è quella di vedere il mio paese trasformarsi
in un luogo dove non si ha la coscienza e l’orgoglio del proprio patrimonio nazionale. Se questo avviene è grave».
Sta succedendo?
«Gli scontri sul velo all’università, gli attacchi agli artisti e ai
giornalisti: sono segnali preoccupanti. Ma ci sono anche molti elementi che fanno sperare. Posso citargliene uno? Il 14 gennaio abbiamo celebrato i due anni dalla rivoluzione con una giornata ‘porte aperte’, biglietto
di ingresso gratis. Bene: siamo stati letteralmente invasi dai visitatori. Donne velate, i loro mariti. Bambini, ragazzi, vecchi. Guardi che non era scontato. Qui dentro ci sono opere romane, cristiane, giudaiche non
solo islamiche».
Arte pericolosa per i salafiti?
«Anche su questo dobbiamo lavorare. Stiamo organizzando percorsi tematici per le scuole. Leggiamo stupore negli occhi dei ragazzi, dei bambini quando
spieghiamo loro che certi valori, certe religioni non vengono solo dall’Occidente ma provengono dalla nostra storia, dalla Tunisia, dall’Africa. Rimangono sorpresi e affascinati. E lo sa che succede? Il giorno dopo tornano con le famiglie. Con le loro mamme velate, con i loro papà religiosi».
Una rivoluzione?
«Questo più che un museo archeologico è un museo di civiltà. Racconta il passato della Tunisia, che è sempre stato un mélange di culture, da sempre abbiamo vissuto insieme. L’importante è accettare le differenze. Questa è la democrazia e questo va insegnato ai giovani».
È difficile per una donna, per di più giovane, fare tutto questo?
«Abbiamo rovesciato Ben Ali, abbiamo fatto una rivoluzione per dare fiducia ai giovani. Ci sono ancora diffidenze, difficoltà. Ma credo che le cose andranno meglio quando si saranno risolti problemi pressanti per noi come per tutti i tunisini. Le difficoltà economiche ci strangolano. Difficile per noi muoversi tra le ristrettezze di budget e la burocrazia, difficilissimo vivere per tanti, troppi in questo paese. E la fame può essere una minaccia ».
Che rischi vede?
«La Tunisia sta ancora cercando la via giusta per avanzare. Non siamo abituati a libertà e democrazia e c’è chi vuole approfittarne per il proprio tornaconto. La strada è lunga».
Lei ha partecipato alle manifestazioni che hanno costretto Ben Ali a’ dégager’, ad andarsene?
«Ognuno fa la rivoluzione a suo modo. Sul web abbiamo manifestato tutti. In piazza alcuni. Io ho deciso di lavorare ogni giorno, freneticamente: cercavo di catalogare più opere possibile perché nessuno potesse approfittare del cambiamento per rubare l’anima del paese, perché si ritrovassero i beni trafugati dal dittatore e dalla famiglia. Anche questo è combattere. Perché il nuovo paese abbia la sua memoria. Perché la memoria può essere rivoluzione».
Lei non porta il velo. Che direbbe a una donna che accetta o sceglie di coprirsi interamente?
«Rispetto la tua scelta. Consenti anche a me di scegliere».
da La Repubblica