Volano gli stracci, nel campo del cosiddetto «antiberlusconismo giudiziario» (se mai fosse lecito utilizzare questa espressione impropria, brandita con troppa disinvoltura da una parte del mondo politico). Ilda Boccassini, inquirente del Cavaliere a Milano, contro Antonio Ingroia, inquirente del Cavaliere a Palermo. Il quale ha riposto la toga nell’armadio e s’è candidato alle elezioni contro Berlusconi. Ilda Boccassini, invece, continua a occuparsi dei suoi processi e procedimenti, con l’impegno di sempre. Quello a carico dell’ex presidente del Consiglio e i tanti altri che ha sulla scrivania. Compresa l’inchiesta ereditata proprio dall’ufficio di Ingroia su Marcello Dell’Utri accusato di estorsione, con Berlusconi parte lesa.
Dopo una breve parentesi trascorsa al loro fianco a metà degli anni Novanta, il procuratore aggiunto di Milano non ha mai avuto opinioni esaltanti sui metodi d’indagine dei colleghi palermitani. Lo stesso si può immaginare della scelta del collega Ingroia di entrare in politica, ma è sempre rimasta in silenzio. Finché lui non ha citato per l’ennesima volta Giovanni Falcone, paragonando la propria situazione a quella del magistrato assassinato vent’anni fa. Allora è sbottata: si vergogni. Con pronta replica dell’interessato: si vergogni lei.
Scenario spiacevole, e un po’ imbarazzante. Il primo paradosso è che a destra gongolano per le parole di Ilda Boccassini contro il leader di Rivoluzione civile, sorvolando sul fango e le contumelie riversate sul pubblico ministero milanese. E poi un altro: contro Ingroia che ha adombrato pensieri non lusinghieri di Paolo Borsellino sul conto della ex collega, s’è schierato il fratello del magistrato assassinato dalla mafia, Salvatore; chiedendo di non usare quel nome nella campagna elettorale, lui che forte dello stesso cognome ha imbastito fortissime polemiche, anche a sfondo politico.
Qualche crepa, inoltre, si può scorgere all’orgine della diatriba. E cioè nelle frase con la quale Ingroia ha messo le critiche rivoltegli da altri magistrati dopo il suo ingresso in politica sullo stesso piano di quelle incassate da Falcone nel 1991, quando andò a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia con il Guardasigilli socialista Claudio Martelli, nel governo presieduto da Giulio Andreotti. E’ vero che non s’è paragonato a Falcone, ma ha paragonato le due situazioni. Che però non sono facilmente paragonabili. Intanto perché il giudice che istruì il maxiprocesso a Cosa nostra non si mise mai alla guida di un partito (o movimento), né si candidò a Palazzo Chigi; accettò di lavorare in un ufficio che la legge prevede sia assegnato a un magistrato. Né, mentre svolgeva indagini, partecipava a convegni di folle osannanti che scandivano il suo nome come quello di un divo. Dopodiché è vero chescandivano il suo nome come quello di un divo. Dopodiché è vero che fu criticato (anche) dai colleghi, ma è vero pure che non fu mai amato dalla categoria. A prescindere da quell’impiego temporaneo. Basti pensare che quando si presentò alle elezioni per il Consiglio superiore della magistratura — nel 1990, dopo che già erano scoppiato il caso della sua mancata promozione e dopo l’attentato all’Addaura, ma prima di trasferirsi al ministero —, su 6.500 magistrati andati alle urne solo 113 votarono per lui. Cioè l’1,7 per cento.
Dunque l’avversione delle toghe italiane verso Falcone non era collegata al suo «avvicinamento alla politica», come l’ha chiamato Ingroia. Che peraltro avvenne su un piano tecnico, un posto ministeriale riservato ai magistrati. Ci fu chi criticò qualche sua opinione o iniziativa ministeriale anche tra chi certo non gli era ostile, cosa del tutto naturale e legittima. Perfino Paolo Borsellino firmò un appello contro la Superprocura ideata da Falcone, ma poi era convinto che a dirigerla dovesse andare lui. A differenza della maggioranza del Csm che votò per un altro candidato, «togati» scelti dai magistrati e «laici» designati dai partiti che mettevano in dubbio la sua indipendenza dal potere. E come ha ricordato Emanuele Macaluso, tra le voci che con maggiore veemenza si levarono contro di il giudice antimafia peri i suoi ultimi atti giudiziari (in particolare l’inchiesta sui «delitti politici» di Cosa nostra) c’era quella del sindaco di PalermoLeoluca Orlando. Il quale in passato era stato amico di Falcone, fino al punto di celebrarne le nozze, e ora è al fianco di Ingroia e della sua «Rivoluzione civile». Esempio eclatante di come possono mutare le opinioni e i rapporti personali nel corso degli anni.
In questo guazzabuglio di storie e intrecci è difficile trarre posizioni nette e giudizi trancianti come quelli che stanno animando questa zuffa preelettorale. Ed è quantomeno ardimentoso citare protagonisti che non ci sono più, per confortare propri pareri su persone o fatti accaduti dopo la loro morte. Certamente Antonio Ingroia era amico e in ottimi rapporti con Paolo Borsellino, ma nessuno può sapere oggi che cosa avrebbe pensato o detto Borsellino del candidato Ingroia. E nemmeno delle sue indagini più recenti. Così come Ilda Boccassini era amica e in ottimi rapporti con Giovanni Falcone; del quale, purtroppo, non sappiamo che cosa avrebbe pensato o detto delle inchieste palermitane, e del comportamento di certi magistrati. Anche se molti, prendendo ogni volta la frase o il ricordo più conveniente, continuano a tirarlo dalla loro parte.
Da Il Corriere della Sera
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Giù le mani da Falcone, di Attilio Bolzoni
I morti bisognerebbe lasciarli in pace. Soprattutto in campagna elettorale. Soprattutto se portano i nomi di Falcone e di Borsellino. Trascinarli nell’arena non onora – mai – la memoria di quegli uomini. E danneggia fortemente coloro che li utilizzano come arma. L’incendio che sta divampando in queste ore sull’eredità contesa dei due magistrati uccisi ventuno anni fa giù in Sicilia, è un incendio che
non si spegnerà presto.
Ma è anche la prova di come certe ferite non si siano mai rimarginate e di come le divisioni siano sempre più profonde anche dopo tanto tempo. E non solo nella magistratura in tutte le sue varie anime. In particolare, in quella magistratura dell’Antimafia rappresentata da autorevoli esponenticomel’expmdiPalermoAntonioIngroia,l’exprocuratorenazionalePiero Grasso, il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini. Un’Antimafia così clamorosamente spaccata non si era mai vista prima. La miccia è stata accesa da Ingroia che, per rispondere alle frecciate sulla sua candidatura ricevute da magistrati e organismi giudiziari, ha accostato il suo isolamento a quello di Falcone («Le critiche delle altre toghe nei miei confronti? Successe anche a lui»), poi sono arrivate le parole della Boccassini – magistrato nota per la sua riservatezza, mai un’apparizione pubblica, interviste che si contano sulle dita di una mano («Tra Falcone e Ingroia esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce, si vergogni») – infine Grasso, che ha escluso ogni lontano paragone fra i due, il candidato di Rivoluzione civile e il giudice che ha cambiato la storia di Palermo e quella della magistratura italiana.
Ha sbagliato Antonio Ingroia – seppur sotto il tiro incrociato da parte dei suoi colleghi di ogni corrente sin dall’inizio di questa campagna elettorale – a spingersi sul filo dei ricordi e tirare in ballo a qualunque titolo Giovanni Falcone, ha sbagliato soprattutto nel passaggio in cui alludeva all’incarico di direttore degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia occupato quando Claudio Martelli era Guardasigilli. Falcone non è mai entrato in politica e non ha mai «collaborato» con la politica: è andato a Roma per riformare la legislazione antimafia, ha semplicemente continuato – su un altro piano – lo straordinario lavoro che aveva cominciato a Palermo con il maxi processo. È stata dura la reazione di Ilda Boccassini e dura ancora di più la replica di Ingroia, con quel riferimento a Borsellino. La ruggine fra i due è antica, i metodi d’investigazione completamente diversi, due “scuole” distanti. Nemmeno il comune grande nemico delle loro procure – Silvio Berlusconi – è riuscito a farli avvicinare negli ultimi dieci anni. La polemica è poi divampata con i rimproveri giunti a Ingroia anche da Maria Falcone e Salvatore Borsellino.
Peccato. In queste elezioni ci sono due magistrati di peso che si candidano al Parlamento, sarebbe uno spreco se l’Antimafia trasferisse – come sta accadendo – nei palazzi della politica tutti i contrasti e tutti i veleni accumulati negli anni precedenti dentrogliufficigiudiziari. L’Antimafiahal’occasionedipresentarsicompattacon proposteperunanuovalegislazione–suipatrimoniilleciti,sull’autoriciclaggio,sullo scioglimento dei comuni, sulla protezione e il reiserimento dei testimoni di giustizia, sugli appalti, sulle contiguità con il potere politico e sulla corruzione – e si dilania invece ancora prima di cominciare l’avventura parlamentare.
Ecco perché chi si candida, chi addirittura fonda un partito, farebbe bene a misurare le parole su questi temi così delicati. E convincersi, superando steccati e rivalità, che l’Antimafia è di tutti.
Scriveva il nostro amico Giuseppe D’Avanzo – naturalmente nessun riferimento ai personaggi citati in questo articolo – nella prefazione di una raccolta di interventi epensieridiFalconeripubblicatadallaRizzolitreannifa:“C’èqualcosadiumiliante in questa ‘sottrazione del cadavere’. È avvilente che la storia di un uomo che abitualmente si ritiene un eroe nazionale, invece di unire, di rappresentare la communitas, quindi quello che noi abbiamo in comune – e dunque un dovere, un debito, la promessa di un reciproco dono (munus) che nessuno può tenere per sé – diventi anche al prezzo di sfigurarne il pensiero un’arma contundente per colpire e annientare l’avversario del momento’. È giusto ricordare queste parole anche perché, dopo più di vent’anni, mentre tutti continuano a citare a proposito o a sproposito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non conosciamo ancora la verità sulle loro morti.
Da La Repubblica