“A poco a poco il ricordo…” : Saul Friedländer ha raccontato nel bellissimo libro che ha questo titolo l’emozione dell’affiorare nella coscienza del ricordo dei genitori e dell’infanzia ebraica dopo anni di vita in un collegio religioso che per salvarlo gli aveva dato un nome e una identità cristiana. Ma gli insondabili abissi della memoria personale che ispirarono a Sant’Agostino espressioni di religioso tremore sono cosa diversa dalla memoria collettiva orientata da poteri di governo. La Giornata della memoria che ricorre domani ne offre un buon esempio. La legge istitutiva del 20 luglio 2000 la finalizzò al “ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati politici e militari italiani nei campi nazisti”. Qui la legge dell’ottimismo che secondo i neurobiologi governa la selezione del ricordo assume i tratti della censura consolatoria: gli italiani vi compaiono come perseguitati e vittime nonostante il dato di fatto di una responsabilità collettiva del nostro Paese e dei suoi governanti nel razzismo e nella persecuzione degli ebrei, nella guerra mondiale a fianco della Germania nazista. Ora è pur vero che al razzismo la popolazione italiana rimase in gran misura estranea sul piano delle convinzioni e su quello dei comportamenti. Lo dimostrarono gli atti di solidarietà e le forme di aiuto alla minoranza ebraica perseguitata: agì in questo una moralità diffusa di istintiva solidarietà con le vittime e coi perseguitati. Ma questa separazione tra un popolo pacifico e un potere statale aggressivo e razzista è precisamente il fatto su cui dovremmo riflettere.
Il rito della memoria della Shoah rischia di illuderci di una distanza da quel passato che molti indizi si incaricano di smentire. Allora in nome dello “stato d’eccezione” furono travolti i principi del diritto internazionale, scatenate guerre senza preavviso, calpestata la convenzione di Ginevra, eliminati malati mentali e altre persone “non degne di vivere”, praticata sistematicamente la tortura. Oggi nella metropoli del mondo occidentale la tortura è praticata e legittimata. Amaro più di tutto è stato il fallimento delle promesse della presidenza di Obama. Uno dei suoi primi atti fu l’ordine di chiusura della prigione di Guantanamo firmato il 22 gennaio 2009. A quattro anni di distanza quell’ordine aspetta ancora di essere eseguito. E intanto ha ripreso vigore nella cultura di governo americana un orientamento favorevole al ricorso alla guerra e all’impiego della tortura come atti legittimi del potere giustificati dalla regola fondamentale della lotta contro il terrorismo. Il terrorista non è un combattente di un esercito nemico in una guerra dichiarata: è un public enemy, un nemico pubblico. Lo si può torturare: anzi si deve farlo se c’è bisogno di ricavare informazioni strategiche sui piani militari dei nemici. Questo scrive John Yoo consulente del Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti che ha fornito un allucinante elenco dettagliato delle violenze che si possono praticare senza infrangere la legge. È una deriva inarrestabile. In Germania Niklas Lumann e Winfried Brugger hanno teorizzato la cosiddetta “tortura di salvezza”, quella necessaria per far parlare il terrorista che ha messo una bomba da qualche parte. Tutto è lecito nella guerra al terrore (“war on terror”). Il presidente degli Usa può ordinare di uccidere il nemico con un atto di killeraggio travolgendo ogni diritto internazionale e dichiarare poi soddisfatto che “giustizia è fatta”: è lui il “comandante in capo” (“Commander in chief”), può assumere i pieni poteri, può scatenare una guerra. Sappiamo quali prezzi il mondo intero e le nostre società abbiano pagato alla ventata di protagonismo che gonfiò il petto di un mediocrissimo George Bush jr portando al delirio le folle americane. Un delirio simile si era già visto sulle piazze di Berlino e di Roma ai tempi dell’Asse. Sembrava che l’avvento di Obama dovesse rimettere in pista il ritorno all’osservanza delle regole democratiche. Non è stato così; e ciò ha reso malinconico di passate frustrazioni e di delusioni anticipate il ballo della festa della sua rielezione. Certo, questo non è solo un problema americano: l’argomento della “guerra umanitaria” e la voglia di esercitare i poteri speciali di “comandante in capo” che con un ordine fa levare in volo i caccia e salpare le portaerei è forte anche in Europa. Intorno a noi si levano fiammate di guerra mediorientali e africane. Queste fiamme per ora sembrano lontane da noi: e invece sono già sufficienti per incenerire i legami dell’unità europea, nati dalla restaurazione dei diritti inalienabili delle persone.
Il referendum minacciato da Cameron rischia di diventare un plebiscito ben oltre i confini dell’Inghilterra. Il fatto è che lo “stato di eccezione” schmittiano è diventato una realtà per ora solo finanziaria ma foriera di ben altre metamorfosi: come non ricordare che la crisi finanziaria fu la levatrice dell’età delle dittature e che le ricette keynesiane ne tennero fuori a stento le istituzioni democratiche degli Usa. E intanto, mentre rievochiamo Auschwitz, sarà bene non perdere di vista un presente dove la tortura è praticata scopertamente e lo stato di diritto appare sempre più remoto, come scrivono Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa in un saggio lucido ed efficace dal titolo significativo (Legalizzare la tortura?, il Mulino). Quella tortura che Alessandro Manzoni definì una “cosa morta, e passata alla storia” è ridiventata il presente del mondo globalizzato dal terrore. E in questo contesto l’ottimismo di chi si volge ai ricordi della Shoah convinto di vivere nel migliore e più democratico dei mondi possibili rischia di annebbiare la coscienza critica del presente.
da la Repubblica