RISPETTO A UNA CAMPAGNA ELETTORALE CHE PARLA DI ALLEANZE E DI TASSE, la Cgil costringe tutti a mirare più in alto, con un’agenda centrata sul lavoro negli Stati Uniti d’Europa. Un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile, una ripresa della domanda interna trainata da consumi e investimenti pubblici e privati per mettere in sicurezza l’Italia, dal territorio ai suoi beni storico-artistici. Una nuova responsabilità pubblica nel finalizzare all’occupazione «piena e di qualità» gli investimenti necessari, nazionali ed europei, una nuova solidarietà europea che non disdegni di mutualizzare almeno il 20% dei debiti nazionali, così tagliando finalmente le unghie a una speculazione finanziaria vincente sinora più per carenze europee che nazionali, che pure non mancano.
Il Piano parla di investimenti finalizzati al nuovo modello di sviluppo che, a norma delle linee guida già approvate dall’Europa ma non ancora rese esecutive dovranno poter essere detratte dal Fiscal compact. Di fronte ai passati decenni dove lo sviluppo era trainato da consumi e indebitamento e la finanza straripava sottraendo risorse all’economia reale e al lavoro, la Cgil propone con il Piano un nuovo modello di sviluppo aperto ai contributi di tutti, a partire da quelli più auspicati delle organizzazioni sindacali e sociali e di tutta la società civile.
Non è un libro dei sogni anche se ha lo spessore dell’ambizione, come quella di trasformare gli attuali (vergognosi), tasso di occupazione più basso d’Europa e tasso di disoccupazione più alto d’Europa, in numeri più in linea con il Vecchio continente. A fronte dei quali Fabrizio Barca, che pure ha elogiato il Piano per la forza del suo grido di dolore e di reazione nel rifiuto di una marginalizzazione del lavoro «quello vivo» della precarietà ed iniquità dei giovani, e quello «morto» incorporato nel patrimoni storico-artistico massacrato dall’incuria passata, ha ammonito sulla difficoltà di pensare a tempi non graduati sull’attuale stato della nostra pubblica amministrazione, di cui egli ben conosce le lacune.
Il piano si rivolge all’Europa proprio perché attacca frontalmente quella strategia dell’austerità portata avanti sinora soprattutto per impulso dei paesi del nord, Germania in testa. Una strategia che, come ha sottolineato anche Silvano Andriani, non è più un “unicum” nel mondo, visto che potenze a noi simili per dimensioni del debito pubblico, come Stati Uniti e Giappone l’hanno abbandonata e sostituita con politiche di sostegno della domanda interna e politiche monetarie più espansive. Insomma Keynes più Shumpeter, come auspica il piano. Visto come, proprio per la contrazione della domanda interna da politiche di austerità senza sviluppo, l’Europa è in piena recessione. Cosa ci dice il piano? Se la domanda non cresce non si crea lavoro. Se le diseguaglianze non si riducono non ci sarà ripresa. Anche se rilanciare la domanda è misura necessaria ma non sufficiente per creare lavoro. C’è il problema attualissimo del “jobless growth” da tecnologie riduttive di posti di lavoro cui noi, il mondo e tutta l’Europa dobbiamo guardare con attenzione in epoca di globalizzazione. Anche con una crescita economica “europea” e non “cinese”, del 2% 3% annuo, è possibile che non si crei lavoro per tutti se non si ritorna a politiche di redistribuzione del lavoro.
Interessanti a questo proposito gli ammonimenti simili venuti da due personaggi diversi come Landini e Giuliano Amato, il primo ricordando i casi tedesco ed olandese degli orari ridotti, il secondo ricordando le tecnologie “job killing”, entrambi auspicando implicitamente una ripresa del processo storico di riduzione degli orari, dimezzati da 3000 a 1500 ore/anno nell’ultimo secolo e che oggi sono invece contrastati da provvedimenti come la pensione a 70 anni, la fiscalizzazione degli straordinari, etc… L’iniziativa coraggiosa ed europea della Cgil è anche una risposta, ardita e difficile, alle accuse di conservazione di recente rivoltele dal premier Monti. Si può contestare l’agenda a medio termine del maggior sindacato italiano, si deve riconoscere che essa contiene obiettivi economico-sociali più definiti e con qualche quantificazione in più di altre agende presentate come più ambiziose. Naturalmente il tema delle diseguaglianze, che tutti i dati di successo dei Paesi meno diseguali, Austria, Germania, Francia, Olanda e Paesi scandinavi, dimostrano essere sempre più un obiettivo di sana economia oltre che di democrazia e civiltà, è stato fortemente sottolineato da Pier Luigi Bersani che non ha mancato di rimarcare come la necessaria ripresa della domanda interna non può essere di una domanda qualsiasi. E questo non sarà l’ultimo dei problemi che, come prossimo presidente del Consiglio, dovrà affrontare.
da L’Unità
Pubblicato il 26 Gennaio 2013