Sul lavoro, quello che drammaticamente oggi non c’è, ma soprattutto quello «buono», «vivo» e «qualificato», che si vorrebbe creare sono ovviamente tutti d’accordo, la Cgil, il Pd, Sel, la sinistra tutta. Idem sull’analisi della crisi terribile che sta vivendo l’Italia. È sulle ricette concrete che i conti non tornano.
La Cgil lancia il suo «piano» da 60 miliardi, obiettivo portare in tre anni la disoccupazione al 7% puntando su investimenti pubblici e non (+10,3%) in modo tale da far crescere il Pil di 3 punti, ed incassa il consenso dell’intero centrosinistra che ieri schierava Bersani, Vendola, Tabacci e anche Giuliano Amato. «L’analisi della situazione dovrebbe essere patrimonio comune. Ma siamo d’accordo solo noi?» si chiede con un pizzico di polemica il leader del Pdi, che anche sul lavoro punge Monti. Susanna Camusso, giusto per mettere a tacere chi parla di collateralismo tra sindacato e futuro governo, chiarisce subito che sarebbe un «orrore» di sentirsi dire dai suoi ospiti «il tuo programma è il mio programma»: «l’esperienza ci dice che è strada sbagliata e scivolosa». E poco importa se da Guglielmo Epifani, possibile ministro del Lavoro in pectore, in giù la schiera dei sindacalisti candidati dal Pd sia particolarmente folta.
Tasse e tante spese
Il libro dei sogni del più importante sindacato italiano, che ovviamente non si può chiamare “libro dei sogni”, non è cosa tanto facile da attuare in concreto. Non basta a renderlo realizzabile le 622 pagine del «libro bianco» curato da Laura Pennacchi, economista ed ex sottosegretario del governo Ciampi, che teorizza «scelte non convenzionali in economia». Che si ritrovano infatti a pieno nel mix di proposte messe in campo dalla Cgil: dall’idea di incassare 40 miliardi di euro dal recupero dell’evasione e dall’introduzione di una nuova patrimoniale chiamata «Imposta strutturale sulle Grandi Ricchezze», a quella di far assumere dallo Stato ben 175 mila giovani (costo 10 miliardi), sino al progetto di far «socializzare» il debito pubblico dei paesi europei alla Bce, che dovrebbe comprare e poi cancellare 1900 miliardi di bond. Per l’Italia sarebbe un «regalo» da 318 miliardi che farebbe scendere il famigerato rapporto debito/pil al 99%; ma per arrivarci, mission impossible, si dovrebbe cambiare non solo lo statuto della Banca centrale europea ma diversi trattati europei. Poi si allungherebbero le mani sul patrimonio delle fondazioni bancarie, sulle disponibilità della Cassa depositi e si vorrebbero utilizzare le risorse dei fondi pensione per investimenti produttivi e non finanziari. Questo, assieme a 20 miliardi di tagli agli sprechi nella Pa, al riordino dei trasferimenti alle imprese (10 miliardi) e dei fondi europei (10 miliardi) ed al calcolo fuori dal patto di stabilità di una serie di investimenti, servirebbe a mettere da parte un «tesoretto» da impiegare su cinque filoni portanti: progetti prioritari (4-10 miliardi), programmi del piano straordinario del lavoro di creazione diretta di lavoro (15-20), sostegno all’occupazione e ammortizzatori (5-10), piano per un nuovo welfare (10-15 miliardi), infine restituzione fiscale (15-20).
Il nodo patrimoniale
Bersani sorvola sulla patrimoniale (piace tanto a Vendola, ma è noto che il leader Pd adesso non vorrebbe andare oltre la rimodulazione dell’Imu), dice sì all’eurotaglio del debito (che difficilmente può essere digerito da Monti, mentre sulla patrimoniale lui ha già dato con l’Imu). Tace anche delle assunzioni nel pubblico (quasi un’eresia in tempi di spending review), e parla del superamento del patto di stabilità dei comuni per avviare subito quante più micro-opere possibili: manutenzione scuole, difesa dell’ambiente, mobilità urbana, ecc. Insomma identità di vedute su tutto. O quasi. «Sulle cose da muovere per fare crescita ci si può intendere» ammicca Bersani.
I punti critici
A metà strada tra Pd e governo dei tecnici, tra attenzione alla questione sociale e pragmatismo, il ministro per la Coesione sociale, il «tecnico rosso» Fabrizio Barca, non si fa invece scrupolo di indicare tre punti deboli del piano-Camusso: la copertura finanziaria difficile da realizzare con la lotta all’evasione, la scarsa attenzione data al rilancio del settore manifatturiero che resta invece centrale, e soprattutto l’eccesso di ottimismo di un piano che già quest’anno dovrebbe fare miracoli.
Monti agli antipodi
Anche al netto delle baruffe di campagna elettorale, anche per queste ragioni, è difficile pensare di incrociare l’agenda Bersani-Camusso con quella di Monti. Che resta il paladino del rigore prima di tutto e non può certo vedere di buon occhio un così massiccio intervento pubblico, e soprattutto che tiene ferma la barra del rigore, concede poco al taglio delle tasse, punta molto sulla capacità del mercato e dei soggetti che vi operano di creare sviluppo alleggeriti di quelli che una volta si chiamavano lacci e lacciuoli ed inquadra la questione lavoro soprattutto come una questione di regole, in chiave liberista sostengono Cgil, Fiom e sinistra tutta.
Quindi l’ipotesi che Pd e Sel, a urne chiuse, debbano cercare un’intesa politico-programmatica col premier per avere una maggioranza più solida si fa alquanto complessa. Nichi Vendola ieri ha scavato un solco profondo: «Susanna, quanta innovazione quanto coraggio nei vostri piani!», nulla al confronto «dell’agendina di Monti». Secondo Giuliano Amato, una volta inquadrato il problema, e detto che la questione lavoro non si risolve nè dando addosso al sindacato nè riscrivendo di nuovo le regole, non bisogna litigare sulle singole misure: si «può discutere dell’una o dell’altra proposta, ma per me oggi è già importante arrivare a fare l’inventario delle cose da fare, degli investimenti che servono a migliorare il paese». Insomma è da qui che dovrebbe partire il futuro governo. Come e cosa fare poi si vedrà.
da www.lastampa.it