Analfabeti in quattro mosse. O meglio, in quattro date: 1985, nascita di Explorer; 1996, maturazione della prima generazione di nativi digitali; 2001, crescita esponenziale dei non istruiti; 2006, i non istruiti tornano a essere la maggioranza.
Sempre che non ci si trovi agli albori di un nuovo alfabeto. Ma andiamo per ordine.
Tutto lo si può far cominciare con i dati Istat 1951, secondo i quali il 46,3% degli italiani erano senza licenza elementare e circa il 50% di costoro era analfabeta totale. Scenario completamente trasformato nel 2011, quando il 53% della popolazione ha almeno il diploma e solo il 5% non ha alcun titolo di studio. E allora, dov’è il problema? È in un recente studio di Arturo Marcello Allega, Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore) che, ricchissimo di grafici e tabelle, rimette tutto in discussione. Gli aridi numeri della statistica, vi si legge, non documentano affatto il successo dell’istruzione dal ’51 a oggi. A ben analizzarli, infatti, risulta non solo che una buona fetta della popolazione non è in linea con gli attuali limiti dell’obbligo scolastico, ma che c’è anche, a partire dal 2001, una crescita esponenziale degli analfabeti di ritorno al punto da dire con «precisione matematica» che oggi i non istruiti sono più degli istruiti. A sottolineare il concetto di «precisione matematica» è lo stesso Allega che, docente di fisica e dirigente scolastico di un importante liceo romano, si occupa da sempre di modelli e di tecniche didattiche anche per il Miur. Una competenza e una pratica quotidiana tale da consentirgli di ben rappresentare la «disperazione dei docenti» di fronte all’incapacità delle riforme ministeriali e dei recenti indirizzi scolastici di far fronte alla «disperante situazione dei nostri ragazzi».
Se infatti si prendono per buoni i dati forniti sia dagli studi “Invalsi” che da quelli “Ocse-Pisa” (che sta per Programme for International Student Assessment), si scopre che «in terza media il 98% dei ragazzi si colloca sotto la media europea per capacità di apprendimento, ma oltre il 99% supera l’esame. Un paradosso che evidenzia l’incapacità istituzionale di governare quella che nei fatti è un’emergenza concreta».
Dunque le positive statistiche del 2011, rispetto a quelle del ’51, dicono in realtà il falso.
«La constatazione l’avevano già fatta Tullio De Mauro e Saverio Avveduto in un libro Laterza del 1995. Se dopo aver conseguito un titolo di studio un individuo non continua ad esercitare e aggiornare le conoscenze apprese, succede che finisce per perderle. Secondo De Mauro e Avveduto le perde in un periodo quantificabile negli anni che ha impiegato per ottenere il titolo. Se ha la quinta elementare ci mette 5 anni, se ha la licenza media ne impiega 8 e via dicendo…».
Per costruire il suo modellino matematico ha applicato queste scadenze?
«Sono stato più buono. Ho stimato un tempo di azzeramento più ampio per ogni fascia di istruzione e l’ho applicato ai dati Ocse forniti ogni decennio per le medesime fasce. Poi sono andato a vedere quanti sono coloro che possono aver perso le competenze relative al loro titolo di studio. Ho incrociato i dati con altri parametri come gli indici di lettura».
Ed è emerso?
«Che le curve generate dal modello tendono ad avvicinarsi progressivamente all’andamento descritto dalla legge di Pareto secondo la quale gran parte dei fenomeni sono descrivibili con la proporzione 80-20».
E alla cultura nel nostro Paese questo come si applica?
«I dati dal 1971 al 2011 dicono che la popolazione con un livello di cultura non più sufficiente è ormai il 70% del totale. Ho misurato anche la velocità con la quale crescono le due popolazioni e ho scoperto che il boom di crescita dei non istruiti si è avuto a partire dal 2001. In sostanza dal 1981 al 2001 sono cresciuti del 4%, ma dal 2001 al 2011 sono cresciuti del 16%. Al contempo gli istruiti, che dal dopoguerra erano sempre cresciuti, dal 2001 sono diminuiti del 6% fino al punto che nel 2006 i non istruiti hanno superato gli istruiti crescendo poi in maniera esponenziale».
Questo prendendo per buono il suo modello applicato al ragionamento di De Mauro e Avveduto. Ma il suo libro evidenzia anche dati reali che lasciano perplessi.
«Nessuno ci pensa, ma la percentuale dei laureati sulla popolazione è stabile da ormai una decina d’anni e si colloca fra il 12 e il 13%. Analogamente la percentuale dei diplomati, attestata fra il 38 e il 39%. Mentre da circa vent’anni la percentuale di chi non ha alcun titolo di studio, anche a causa dell’immigrazione, è fra il 7 e il 5%».
Numeri che nel libro lei associa a fenomeni sociali come l’avvento di Internet.
«Non è un caso che la prima delle quattro date che secondo me hanno rivoluzionato il mondo la indico nel 1985, anno della comparsa di Explorer e quindi del web. Così come quella del 2001 coincide con l’esplosione della diffusione delle tecnologie digitali. Si può anche pensare che stia nascendo un nuovo alfabeto e che quel 70% non sia composto da “nuovi barbari”, ma da “nuovi alfabeti”. Nei fatti, però, ci troviamo in un mondo del tutto nuovo in cui il successo sociale ed economico, così come propagandato dai media tradizionali e da internet, appare slegato dalle capacità culturali dell’individuo. Si assiste all’arroganza del self made man orgoglioso di essere senza studi. La scuola è impreparata. E mi viene da pensare che una società democratica rischia, su questa strada, di diventare sempre più manovrabile e fragile».
da Avvenire