Il volantino comincia: «Mercoledì 24 gennaio, alle ore 6,40 un nucleo armato delle Brigate rosse ha giustiziato Guido Rossa, spia e delatore all’interno dello stabilimento Italsider di Cornigliano, dove, per svolgere meglio il suo miserabile compito, si era infiltrato tra gli operai camuffandosi da delegato…». In alto la solita intestazione, Brigate rosse, con la stella a cinque punte. Sui giornali, il giorno dopo, comparvero foto tremende: un’auto in una strada di Genova, via Fracchia e l’auto era una Fiat 850, sull’auto un uomo con la barba, la testa reclinata sul volante. Guido Rossa, operaio comunista, morì così, a quarantacinque anni, qualche colpo di pistola e via. Per lui stava cominciando una giornata come tante altre, in officina, in tuta, a sistemare macchine e attrezzi.
«Aveva una grande capacità ed una grande professionalità – lo ricordava un compagno d’allora, Renato Gabbi – e in questo si vedevano le qualità dell’uomo, ma anche quelle di un operaio comunista, che, per prima cosa, pensava che occorresse saper far bene il proprio lavoro. Guido era un mago. Sapeva riparare gli strumenti di precisione, perché questa era la sua mansione, con l’abilità di un orologiaio». Guido Rossa aveva tante passioni, leggeva molto (Gramsci, ma anche Bertrand Russell o Marcuse) e scriveva, dipingeva. Era un bravo fotografo. Amava la montagna. Tra le prime sue immagini che furono pubblicate è quella di lui vestito di una giacca a vento leggera con il berretto di lana in testa, sullo sfondo le nebbie di chissà quale cima. In un’altra lo si vede seduto su una roccia, mentre «assicura», la corda a spalla, il compagno che deve ancora salire. Immagini di fatica e di pace. In una lettera a un amico, alpinista di valore negli anni 60-70, Ottavio Bastrenta, notaio, lettera pubblicata allora in parte (la si legge in coda al bel libro della figlia, Sabina Rossa, realizzato con Giovanni Fasanella, Guido Rossa, mio padre, Rizzoli), scriveva: «Con le lotte dell’autunno caldo il movimento operaio italiano ha dimostrato, a chi pensava come ad una ripetizione del maggio francese, di saper fare di più e meglio. La classe operaia ha saputo rifiutare il discorso strategicamente infantile e semplicistico del “tutto o nulla”, non nel senso che il movimento di classe abbia rifiutato la prospettiva di una lotta rivoluzionaria, ma valutando che nelle società a capitalismo avanzato la via della rivoluzione sociale non è solo il frutto di minoranze coscienti e combattive, ma è invece il risultato della conquista della classe operaia di ampi strati sociali, di uno sforzo da condurre ogni giorno, nella fabbrica e nella società per limitare il potere dei gruppi monopolistici».
Scriveva ancora: «Io penso che il compito nostro non sia quello di elaborare modelli delle società future, ma sia proprio questo: capire il movimento reale, di classe concretamente presente oggi, che può portare al superamento dell’attuale società. In quanto all’uomo nuovo o a migliorare l’uomo, personalmente ho già una grande fiducia in quello attuale e penso che basterebbe poterlo inserire in una società come questa, aperta a tutti i valori, a tutte le concretezze umane, alla originalità di tutte le coscienze, una società dalla quale sia bandita la concorrenza come suprema legge dell’economia e il profitto come motore essenziale del progresso economico». La lettera continua e Guido Rossa continua a immaginare questa società desiderata, che sia laica, democratica, libera, solidale… Guido Rossa è un comunista ed è un autentico riformista. Cancella il «sol dell’avvenire», vive nella sua città, sindacalista nella sua fabbrica, battendosi giorno per giorno, perché le cose cambino, chiude in fondo con la sua morte, un anno dopo quella di Moro, un ventennio, dal primo centrosinistra attraverso il nostro breve Sessantotto, che fu anche di grandi progetti e di grandi riforme. Muore, perché aveva denunciato un terrorista che distribuiva volantini delle Br all’Italsider, Francesco Berardi (poi suicida). Fu la prima vittima della campagna di terrore contro «l’ala riformista dello schieramento polico» (linguaggio delle Br). Dopo di lui, in quel tragico 1979, verranno Emilio Alessandrini, colpito perché troppo impegnato nel buon andamento della Giustizia, Walter Tobagi, Vittorio Bachelet, il vicepresidente del consiglio superiore della magistratura, raggiunto dentro un corridoio dell’università di Roma.
L’Unità titolò quel giorno in prima pagina: «Le Brigate rosse gettano la maschera. Operaio comunista trucidato a Genova». Già si sapeva che cosa fossero le Brigate rosse. Ma quell’assas- sinio fu il segno estremo di una follia politica. Il seguito fu la sconfitta definitiva del terrorismo, ma anche, per altre numerose voci (la corruzione, ad esempio, e pochi mesi dopo la morte di Guido Rossa nel messaggio di fine anno il presidente Pertini dovrà denunciare: «La corruzione è una nemica della Repubblica») la crisi della politica, la crisi dei partiti, il craxismo, Tangentopoli, il ventennio berlusconiano.
Mario Moretti, uno dei capi delle Br e dei sequestratori di Moro, in un libro intervista, confessò che l’assassinio di Guido Rossa fu «sicuramente un errore» e spiegò, bontà sua, che «la morte è sempre grave» ma che, in quel caso, fu l’errore politico che «indusse a non controllare rigidamente l’uso delle armi». Un disguido, insomma. Ma quel «miserabile» volantino di rivendicazione (l’abbiamo citato) dice altro e non fu un’invenzione di «infiltrati». Gli assassini furono individuati e condannati. Risultò che uno dei tre avesse cercato più degli altri la morte di Guido Rossa, il «traditore».
«Davanti al monumento dedicato a Guido, al vecchio ingresso della fabbrica – ci racconta trentaquattro anni dopo Renato Penzo – sono stato un’altra volta sopraffatto dall’emozione, ma ho cercato anche di riflettere sul senso di quella morte, sul nostro presente». Renato Penzo era nel 1979 il segretario della sezione del Pci all’Italsider, la sezione Amilcare Cabral, che contava mille e duecento iscritti. Sta in politica ancora, nel Pd. Le tue conclusioni? «Mi colpisce la paura della gente, che affronta il giorno per giorno senza sicurezze e guarda al proprio futuro senza certezze, tradita dalle condizioni economiche, disillusa dalla politica. Mi colpisce la condizione dei giovani, senza un lavoro. Il mondo è cambiato, e probabilmente è cambiato in meglio. Ma questa nuova modernità ha lasciato troppi indietro e ai margini. La nostra politica era solidale. Ci consentì nuovi diritti, ci aiutò a difendere il posto di lavoro, a difendere la fabbrica. Anche la mensa aziendale fu una conquista di una politica vera, una conquista per chi si doveva portare il mangiare da casa. Si era uniti. Poi il vento cambiò e ci ritroviamo così, ma dobbiamo riguadagnare quella scuola».
L’Unità 25.01.13