Come accadde già per il bubbone Bnl-Unipol di Consorte e per la Lodi-connection di Fiorani, il caso Montepaschi è uno scandalo finanziario ad altissima intensità politica. Il buco nero nei conti della banca «rossa» non è solo la fine indegna dell’ultimo residuo di «socialismo municipale» rimasto nel Paese. È anche una miccia innescata nel cuore fragile di un sistema creditizio opaco e autoreferenziale. Ed è anche una bomba incendiaria che deflagra in campagna elettorale, e che una destra ipocrita e disperata prova a scagliare contro una sinistra sbigottita e imbarazzata. Eppure non c’era nulla di più annunciato, nel clamoroso collasso della banca più antica d’Italia.
Mps ha chiuso il 2011 con una perdita di 4,7 miliardi. Ora crolla di schianto. Sotto i colpi delle sue velleità: l’operazione Antonveneta, comprata al prezzo folle di 9,5 miliardi, sulla quale pende un’inchiesta giudiziaria che promette sfracelli. E sotto i colpi dei suoi trucchi di bilancio, che spuntano come funghi avvelenati. Prima i 150 milioni di costi del personale non contabilizzati. Poi i passivi devastanti sui contratti derivati, sottoscritti tra il 2008 e il 2009 per ricoprirsi da un’enorme esposizione accumulata in titoli di Stato (25 miliardi, pari a due volte e mezzo il capitale). Dovevano servire a nascondere i buchi futuri, e invece hanno allargato a dismisura quelli esistenti.
Lo scandalo finanziario chiama in causa molte responsabilità. Prima di tutto ci sono i manager. L’ex presidente Mussari e l’ex dg Vigni, auto-retribuiti con bonus milionari, hanno trasformato un istituto sano in un baraccone. Mussari si è appena dimesso dalla presidenza dell’Abi: ma il vero paradosso è che ci sia rimasto per ben dieci anni. Poi ci sono i controllori. La Consob tace. La Banca d’Italia parla di «documenti tenuti celati all’Autorità di Vigilanza». Se è così – e conoscendo la rettitudine di Ignazio Visco non ne dubitiamo anche Via Nazionale (insieme agli azionisti, ai dipendenti e ai correntisti della banca) è «parte lesa» di una truffa che ricorda paurosamente il crac della Parmalat.
Tocca alla magistratura e alla Guardia di Finanza scoperchiare il verminaio di Siena. Ma quello che preoccupa, a questo punto, è la dimensione «sistemica» del rischio. Le banche continuano a soffocare l’economia reale (i prestiti alle imprese a novembre si sono ridotti di un altro 4%). Nel frattempo, le sofferenze hanno superato i 150 miliardi, e il valore nominale dei derivati che gli istituti hanno in pancia ha raggiunto la cifra monstre di 7.560 miliardi di euro. Quanti altri bubboni, sul modello Mps, sono stati nascosti nelle pieghe dei bilanci dagli altri Signori del credito?
C’è poi lo scandalo politico. Anche qui le responsabilità sono diffuse. Comune e provincia, a Siena, hanno fatto per troppi anni il loro comodo, amministrando come un setta la Fondazione che a sua volta controlla la banca. Lottizzazioni e clientele, tra Palazzo Comunale e Rocca Salimbeni, non sono mai mancate. La difesa anacronistica della «senesità» ha prodotto solo guasti. Al di là delle colpe specifiche degli amministratori locali, anche i leader nazionali del Pd devono fare qualche autocritica. Ma è penoso sentire la destra berlusconiana (pluri-condannata e pluri-inquisita) che invoca «chiarezza e giustizia».
Ed è ancora più penoso sentire Giulio Tremonti che attacca Mario Draghi. Lo stesso professore di Sondrio che, da ministro del Tesoro, provò a mettere le mani sulle banche con i Tremonti bond, e che erogò proprio all’Mps la bellezza di 1,9 miliardi. Questa destra ipocrita e bugiarda, in nome dei contribuenti italiani tartassati dall’Imu, piange per i 3,9 miliardi di Monti bond appena concessi all’istituto senese. Ma chi ci restituirà i miliardi che spese nel 2005 per salvare Credieuronord, la «centrale» bancaria della truffa sulle quote latte ordita per conto della Lega di Bossi e Maroni? C’è un vergognoso «azzardo morale», che accomuna la finanza predona e la politica stracciona. È difficile dire quale sia il male peggiore.
La Repubblica 24.01.13