I talenti non ci piacciono. Con quelli stranieri adottiamo una specie di “respingimento soft”: prima li facciamo arrivare (pochi), poi facciamo di tutto perché non restino. Soldi buttati e cervelli non sfruttati. «Siamo talentuosi nel rigettare i talenti», dice Tito Boeri, direttore scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti, che ha coordinato la prima ricerca in Italia sui tremila studenti stranieri iscritti a dottorati delle nostre università.
Un’indagine sull’università, certo, ma soprattutto sulla miopia delle politiche in materia di immigrazione. Perché la vera ragione per cui la stragrande maggioranza dei giovani studiosi non resta in Italia sta nella legge Bossi-Fini che rende praticamente impossibile la loro permanenza, costretti e una gimcana continua nei meandri della burocrazia inefficiente per poter “strappare” il necessario permesso di soggiorno. «La filosofia della legge – spiega Boeri – è che l’immigrazione sia sempre una minaccia». Anche quella qualificata. E così solo il 6 per cento dei dottorati stranieri, dopo aver ricevuto nell’85 per cento dei casi una borsa di studio per un quadriennio, proverà a restare in Italia. Invece, se ne andrà altrove il 40 per cento. Al quale va aggiunto una parte di quel 54 per cento che dichiara di non aver ancora scelto.
Risorse sprecate, dunque, poiché si calcola che ogni ricercatore costi alla comunità intorno ai 40-50 mila euro l’anno. E spreco di talenti: anziché tenerci uno studioso di qualità, che può contribuire ad innalzare il livello scientifico, preferiamo abbandonarlo. Un competitor in meno anche per le nostre baronie chiuse nelle cittadelle universitarie. Tant’è.
Eppure i giovani studiosi arrivano in Italia speranzosi. Circa la metà (il 55 per cento tra coloro che arrivano da un paese non europeo e il 48 tra tutti gli studenti) sceglie l’Italia per la disponibilità di una borsa di studio. Il 41 per cento lo fa per la buona reputazione della ricerca nel nostro paese. Ed è molto interessante notare che ben il 73 per cento di studenti di dottorato è iscritto a una facoltà scientifica. Il 31 per cento a ingegneria. Il 77 per cento arriva da paesi non europei; il 33 per cento dall’Asia, Cina e India. L’età media è di 29 anni; le donne sono il 44 per cento del totale.
I giovani studiosi cercano le lezioni in inglese: il 61 per cento dichiara che la maggior parte dei corsi seguiti sono nella lingua di Shakespeare. Percentuale che sale al 67 per gli studenti non europei.
Poi arrivano le note dolenti. Non dalla struttura universitaria, ma dal contesto: la burocrazia, i vincoli della legge sull’immigrazione, l’inadeguatezza delle informazioni agli uffici pubblici. Ottenere il permesso di soggiorno costa (il 67 per cento degli studenti ha pagato dai 50 ai 200 euro), richiede una perdita di tempo (per il 28 per cento degli intervistati arriva dopo un anno di attesa). Complicato uscire per seguire seminari e conferenze all’estero e poi rientrare in Italia. Ma si può studiare così nel mondo globalizzato? Meglio cambiare paese. Negli Usa, per esempio, dove ha studiato un terzo degli attuali Capi di Stato.
La Repubblica 23.05.09