La destra è alle prese con la questione morale. Vuole raccogliere anch’essa la sfida lanciata dal Pd che, per ragioni politiche e non giustizialiste, ha escluso (rischiando qualcosa in termini di consenso) alcuni candidati dalle liste. Per licenziare liste senza macchie e schivare i prevedibili costi di immagine, il Pdl incarica (chi altri se no?) Berlusconi e Verdini di controllare l’onorabilità dei candidati. Il profilo etico-politico di tali supremi censori non è proprio sublime.
̀ E’ dunque scontato che tutti gli esclusi eccellenti (Dell’Utri, Papa, Milanese, Scajola, Cosentino) scalpitino all’unisono e chiedano a gran voce cosa mai gli autoproclamatisi guardiani della virtù abbiano meglio di loro. Insomma, un bel pasticcio questo duello sanguigno condotto in nome della morale e che vede in scena alcuni deputati condannati in primo grado, altri appena usciti dalle patrie galere, altri ancora salvati dalle Camere solo sul rotto della cuffia dalla richiesta d’arresto (per reati infamanti) che pendeva sulla loro povera testa. Quando l’etica di un partito è affidata alla valutazione insindacabile di capi che non sembrano proprio degli stinchi di santo si creano delle situazioni certo stravaganti.
Neppure la condanna penale, per un partito personale-padronale come il Pdl, è da ritenersi come un precedente per tutti uguale. Il capo, che pure è un inquisito permanente, un processato ad oltranza, con alle spalle sentenze già pronunciate e altre ormai in dirittura d’arrivo, è per definizione legibus solutus. Gli altri sodali, anche quelli della prima ora, se ostacolano il disperato disegno di resistere in vista di un pareggio, non di vincere che è impossibile, vadano pure alla malora con i loro imbarazzanti segreti. Il capo no, per lui, e solo in virtù dell’immenso denaro che lo circonda, la pena inflitta dai tribunali, non vale proprio nulla. Berlusconi percepisce che il denaro e i media hanno il magico effetto di liberare il suo corpo dorato dalle insidie infanganti (ma solo per gli altri) del diritto penale e di cancellare all’istante ogni colpa. Per questo, senza scomporsi troppo per le sue disavventure giudiziarie, egli assume gli abiti del capo immacolato che guida la più intransigente delle pulizie morali. Al riparo del gran fiume di denaro che lo circonda, il Cavaliere sa che persino le pene regolarmente inflitte scompaiono come bazzecole dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica che rimane sempre incantata dinanzi alla immortale potenza dell’oro.
Quindi, politico pulito solo in virtù del denaro che garantisce un’amnistia perpetua, il Cavaliere intima agli amici caduti in disgrazia di farsi da parte. Per alcuni ha persino pensato, lui che è il banditore ambulante della necessità di un bipartitismo che faccia piazza pulita dei partitini, di offrire una sistemazione provvisoria in delle piccole liste inventate ad hoc (ne ha sfornato già una quindicina). Se il candidato sotto osservazione speciale mostra di possedere degli ingenti pacchetti di voti, quelli che possono fare la differenza in una delle Regioni in bilico, la ghigliottina preparata con il contributo di Verdini può attendere.
La malconcia livella della procura berlusconiana non giudica comminando dei rimedi equivalenti alle situazioni pendenti reputate come uguali. Ha molti occhi e tante orecchie e offre assoluzioni o sanzioni a seconda delle sfacciate convenienze del capo. Il conflitto tra politica e magistratura è una cosa seria con venature persino drammatiche nel ventennio trascorso. Ma, nel caso delle controverse candidature al vaglio del Pdl, le invasioni di campo, le alterazioni delle funzioni costituzionali, l’offuscamento della separazione dei poteri c’entrano ben poco.
Si tratta delle maldestre disavventure di potenti o di servitori di potenti che hanno personali guai con la giustizia e che per cercare di farla franca alzano un gran polverone per gridare al complotto delle toghe.
Il giustizialismo è una malattia del ventennio che con il suo schematismo oscura le ragioni della politica. Ma nelle amletiche angosce del Pdl su chi escludere dalle liste in nome della morale c’entra ben poco. Un Cavaliere che assolve e condanna i suoi seguaci, e lo fa a sua assoluta discrezione, è solo la nemesi di un politico ossessionato dalle manette che vorrebbe arrestare i magistrati e poi decide egli stesso di indossare la toga per ergersi ad inflessibile giudice del bene e del male. Berlusconi ha indossato sinora tutte le maschere possibili, quella del procuratore della morale ancora mancava.
l’Unità 21.01.13