Più stato sociale, non meno. La nostra distanza da Monti
Archiviata la formazione delle liste, è tempo di campagna elettorale e di definizione dei programmi. Sono convinto che mai come in questa tornata il confronto tra le forze in campo debba avvenire su proposte concrete e obiettivamente realizzabili. In un paese in cui più del 37 per cento dei giovani è senza lavoro, il tasso di disoccupazione ufficiale è stabile sopra l’11 per cento, i consumi registrano un crollo finora mai sperimentato nella storia della repubblica, il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati è in caduta verticale – complice un’inflazione che, nonostante la crisi, sui beni di prima necessità supera il 4 per cento – e la recessione sembra non aver fine, non servono slogan. E le promesse hanno un suono irritante.
Le recenti primarie del Pd per la scelta dei candidati hanno mandato un segnale chiaro. Gli elettori del centrosinistra hanno premiato ovunque i giovani e le donne, segno della volontà di voler svecchiare la rappresentanza parlamentare, ma hanno anche sancito l’affermazione di quegli esponenti del partito che più si sono battuti sui temi dello sviluppo e del lavoro e sulle questioni sociali. Significa che c’è una forte richiesta di impegno su quei punti – colpevolmente ignorati da Berlusconi e non adeguatamente affrontati da Monti – che più concretamente incidono sulle condizioni di vita delle persone. Da qui deve riprendere il nostro dialogo con i cittadini. Pur senza disattendere le esigenze del risanamento, le scelte del prossimo esecutivo dovranno essere indirizzate verso un deciso sostegno alla crescita produttiva e occupazionale, puntare su una vera politica industriale e mirare a un potenziamento dello stato sociale.
Il 2012 si è chiuso con un miliardo e cento milioni di ore di cassa integrazione autorizzate, un numero che equivale ad oltre 500mila lavoratori a zero ore per un anno intero. È la conferma che la crisi continua e che provocherà, in questo 2013, nuovi enormi problemi sul piano sociale. Questi andranno ad aggiungersi a quelli già determinati, oltre che dalla crisi generale, dall’abolizione delle pensioni di anzianità e dal contemporaneo accorciamento della durata degli ammortizzatori sociali decisi dal passato governo: scelta che ha fatto sì che centinaia di migliaia di persone rimanessero improvvisamente senza lavoro, senza tutele e senza pensione (e che in questa condizione rischino di restare anche per 4 o 5 anni).
Per questi motivi credo che il prossimo governo dovrà intervenire per correggere le riforme del ministro Fornero, sia sul fronte delle pensioni che su quello del mercato del lavoro. La situazione che si è prodotta, a partire dalla questione delle centinaia di migliaia di cosiddetti esodati, si configura infatti come un’ingiustizia e un affronto al buon senso. Ammortizzatori sociali universali ed efficaci (anche rallentando l’introduzione della nuova Aspi, almeno finché durerà la crisi attuale) e una previdenza più flessibile e meglio aderente alle esigenze delle persone, devono essere per noi obiettivi irrinunciabili. Sul fronte del mercato del lavoro, mentre è condivisibile la soluzione trovata sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che, accanto al risarcimento, reintroduce il reintegro anche in caso di licenziamento per motivi economici), credo si debba procedere alla cancellazione della norma, a suo tempo introdotta da Sacconi, che rende derogabili dalle parti sociali a livello aziendale le disposizioni di natura legislativa e contrattuale a tutela dei lavoratori (l’articolo 8). È irrinunciabile poi superare fin da quest’anno il blocco della perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo. La difesa del potere di acquisto delle rendite pensionistiche, in questi anni duramente colpito, va garantita. È una questione di giustizia sociale ed è anche un modo per stimolare i consumi. Un’ulteriore perdita del valore reale dei redditi medio bassi e un conseguente ulteriore calo delle vendite al dettaglio determinerebbero conseguenze devastanti.
Ma un’attenzione particolare va indirizzata alla creazione di nuovi posti di lavoro. Una disoccupazione giovanile che nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha sfondato, secondo le ultime rilevazioni Istat, quota 37 per cento, non può essere né tollerata dalla coscienza civile né, alla lunga, sopportata dal sistema. Il futuro governo dovrà intervenire sul costo del lavoro – che dovrà diminuire per le assunzioni a tempo indeterminato – e dovrà introdurre nuovi incentivi per rilanciare le assunzioni di giovani, donne e disoccupati di lungo periodo.
Cesare Damiano
Pubblicato il 16 Gennaio 2013