Destra e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.
La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.
In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo. Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana
governance
internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta.
Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito:
reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati. Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.
E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un
welfare state
che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito. Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico. La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.
La Repubblica 15.1.13