C’è un bar, non lontano dalla borsa di New York, verso la punta sud di Manhattan, che i veterani della finanza americana chiamano «il cimitero di Wall Street». È il locale dove, per tradizione, chi viene licenziato dalle banche d’affari va a bere con ex-colleghi e rivali. Un martini o tre per dimenticare i fallimenti dei mesi precedenti e trovare il coraggio di sperare in un futuro migliore.
È un posto come tanti, con pannelli di legno sui muri, poltrone un po’ fané e birre abbastanza decenti. Un pub qualunque amato proprio perché ordinario, banale e poco appariscente. Anzi, nel patto di omertà che accomuna i lavoratori di Wall Street, nessuno può rivelarne il nome (e non sarò certo io ad interrompere la tradizione).
Sono stato lì di recente a «celebrare» il licenziamento di un amico e c’era qualcosa di strano tra gli avventori seduti al bancone aggrappati alle loro pinte: erano tutti più vecchi del solito.
Non me ne resi conto allora, ma quei quarantenni e cinquantenni senza lavoro erano parte di un cambiamento generazionale senza precedenti nella manovalanza della finanza americana.
Negli ultimi mesi, grandi banche d’affari quali la Goldman Sachs, la J.P. Morgan e la Morgan Stanley hanno annunciato centinaia di migliaia di licenziamenti. Fino a qui, niente di nuovo: l’industria bancaria americana è abituata a periodi bui in cui i posti di lavoro scompaiono come neve al sole.
La differenza questa volta è che a ricevere il benservito non sono i giovanotti di belle speranze ma gente con 15-20 anni di esperienza. Le banche lo hanno detto più o meno esplicitamente: stiamo tagliando il personale più costoso, quelli con decenni di salari enormi, pensioni e altri benefits. Senza nemmeno rimpiazzarli.
Morgan Stanley, per esempio, questa settimana ha detto che «lascerà andar via» – l’eufemismo preferito dagli americani quando si parla di licenziamenti – 1.600 persone. Ma allo stesso tempo ha annunciato che il numero di banchieri promossi a «managing director» – il rango più alto della sua gerarchia – sarà il più piccolo dal 2009.
E Goldman Sachs, che ha già licenziato 1.000 persone oltre al «solito» taglio annuale del 5 per cento dei dipendenti meno produttivi, ha fatto lo stesso. Il numero di promozioni al rango di «partners» – la posizione più elevata e redditizia che un banchiere può raggiungere a Goldman – è stato il più basso in più di un decennio.
Non solo. Le mie spie a Goldman mi dicono che i capi della banca hanno «incoraggiato» decine di partner più anziani ad andare in pensione quest’anno.
A cosa è dovuta questa trasformazione così repentina? I tempi, come cantava Bob Dylan nell’indimenticabile «Times They are a-changin», stanno cambiando.
Il determinismo darwiniano di Wall Street ha sempre dettato che fossero i più giovani ad essere licenziati, gli sbarbatelli con pochi anni di esperienza che non erano in grado di giocare allo stesso livello dei «pros» – i professionisti con i capelli grigi.
Con l’ironia un po’ macabra che è propria del mondo della finanza, gli abitanti del Sud di Manhattan avevano persino coniato un acronimo per spiegare il fenomeno: LIFO – «last in, first out». Chi entra per ultimo esce per primo.
L’idea, non sbagliata, era che i cicli da montagne russe della finanza – boom, crisi, ripresa boom, crisi ecc. – obbligavano le banche a tenere i «grandi produttori», i banchieri e operatori con Blackberry pieni di nomi di capitani di industria ed investitori. Pagarli per un paio di anni di vacche magre valeva la pena – ragionavano i manager di Wall Street – perché l’inevitabile ritorno del boom li avrebbe resi indispensabili.
Cosa fare, però, se il ritorno del boom non è più così inevitabile? Il trauma della crisi del 2008-2009 e la risposta di governi e autorità di settore ha cambiato in maniera fondamentale il gioco della finanza.
Con l’economia globale sull’orlo della recessione, regole sempre più dure sul capitale, ed un mondo delle imprese paralizzato dall’incertezza, l’imperativo per banche di tutto il mondo è controllare i costi perché non si sa bene quando le entrate ricominceranno ad aumentare.
«È possibile – mi ha detto il mio amico licenziato nel bar segreto – che questo non sia un ciclo ma un ribasso permanente nella crescita dell’industria finanziaria».
Se ha ragione – e come lui la pensano in molti – le banche non si possono permettere di pagare 5 milioni di dollari all’anno a uno che ha esperienza ma non è in grado di produrre entrate commensurate al salario. A quel punto, è meglio dire: «largo ai giovani», con l’importante chiosa, «perché costano meno».
Uno dei capi delle banche d’affari di Wall Street mi ha spiegato l’equazione. «Se riesco a pagare il 50 per cento di meno uno che fa 60-70 per cento del lavoro di un veterano che licenzio, risparmio soldi e riesco a sopravvivere».
Il rischio è ovvio e non solo per le banche ed i loro azionisti. Senza i capelli grigi, e l’esperienza di chi non è «al primo rodeo» come dicono in Texas, c’è il pericolo che la qualità del prodotto soffrirà».
In un’industria in cui il «prodotto» è, essenzialmente, il cervello di chi ci lavora, l’idea di avere un manipolo di giovani intelligenti ma ingenui nella stanza dei bottoni non è proprio ideale. Soprattutto quando sono responsabili per miliardi e miliardi di dollari di fondi d’investimento, risparmiatori e governi.
«Impareranno», mi ha detto un altro vecchio banchiere, che è andato in pensione quest’anno senza tanti rimpianti. «Alla fine, non è che noi veterani abbiamo proprio fatto un ottimo lavoro negli ultimi anni».
È certamente vero che l’industria finanziaria attrae plotoni e plotoni di giovani di altissima qualità intellettuale – gente «rubata» alla fisica, la scienza e le arti umanistiche per via dei salari giganteschi pagati da Wall Street.
E non c’è dubbio che i cosiddetti «pros» della finanza si siano comportati come un gruppo di incompetenti dilettanti nel boom prima della crisi.
Ma giocare con i soldi, soprattutto i soldi altrui, è giocare col fuoco e l’esperienza e i contatti qualcosa contano.
Facciamo, senz’altro, largo ai giovani ma non dimentichiamoci dove possiamo trovare i veterani, se ne avessimo bisogno: in un piccolo bar all’ombra della Borsa.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
La Stampa 14.01.13