Il dopo austerity sta cominciando. Dai vertici dell’Unione europea arrivano segnali, ancora discreti ma inequivocabili, di un cambiamento di rotta. Nessuno vuole prendere atto in modo brutale che le terapie fin qui applicate nell’eurozona erano proprio sbagliate.UNA tesi che invece ha autorevoli sostenitori su questa sponda dell’Atlantico: da Barack Obama al Nobel Paul Krugman. Senza ripudiarla troppo esplicitamente, l’austerity viene liquidata con uno stillicidio di dichiarazioni. Messe insieme, anticipano la fine di un’èra. Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ora finge che i feroci salassi al Welfare non abbiano mai avuto un imprimatur da Bruxelles: «E’ un mito che l’Unione europea imponga politiche dure, non è vero». Più drastico e anche autocritico, il presidente uscente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Claude Juncker: «L’Europa sta sottovalutando la tragedia della disoccupazione, supera l’11% e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro». Alla Bce Mario Draghi ammette che ancora «non si vedono segnali di miglioramento dell’economia reale» (l’unica che conta per i cittadini: investimenti, lavoro, reddito). Draghi rifiuta di pronunciarsi sulla sconcertante previsione di Angela Merkel, che in un’intervista del 2012 parlò di altri cinque anni di crisi. Rischia di essere la classica profezia che si autoavvera: sia per l’influenza che ha la cancelliera tedesca sul clima di fiducia generale, sia perché da Berlino viene la ricetta che ha prolungato finora l’austerity. «Gli Stati Uniti ci interpellano — aggiunge ancora Juncker che in passato era spesso allineato con la Germania — e noi abbiamo risposte di cortissimo respiro».
Gli Stati Uniti non solo l’Amministrazione Obama. C’è anche un’istituzione multinazionale con sede a Washington, il Fondo monetario, che ha fatto una clamorosa autocritica. In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fmi ammette di avere sbagliato sistematicamente le sue previsioni durante questa crisi. E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione. Come si spiega questo perseverare nell’errore, a senso unico? Secondo l’autodiagnosi del Fmi, sono stati «sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell’austerity come freno alla crescita». Questi effetti sono tanto più pesanti se «l’austerity non è uno shock una tantum», bensì una terapia protratta su più anni. E’ esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: «Non si esce dalla crisi a colpi di tagli». I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d’acquisto e i consumi; la mancanza di domanda deprime gli investimenti e le assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che “aritmeticamente” fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre. Un altro studio che circola qui a New York, sfornato dalla Goldman Sachs, individua un solo caso nella storia in cui l’austerity sia stata accompagnata alla crescita. E’ il caso del Belgio, un paese così piccolo che l’andamento della sua economia è quasi interamente legato alla domanda dei paesi vicini come Germania, Francia, Olanda. Esclusa questa minuscola eccezione, austerity e crescita non coincidono mai nei fatti. La controprova la fornisce proprio l’economia degli Stati Uniti. L’Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare all’“ ordo- liberismo” della Merkel, né ai parametri di Maastricht o altre versioni aggiornate di “fiscal compact”.
Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all’8% del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti esterni. E’ anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l’America ha una crescita che sfiora il 3% annuo, genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni al mese da due anni a questa parte, e ha ridotto la disoccupazione dal 10% al 7,8%. Tutte quelle economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta — vedi le potenze emergenti dei Brics — hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.
L’Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. E’ ancora Juncker il più colorito, che rispolvera addirittura l’autore del Manifesto comunista: «Occorre ritrovare la dimensione sociale dell’Unione economico- monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro, altrimenti per dirla con Marx perderemmo credibilità verso la classe operaia». Molto dipende ancora dalla Germania, e dall’esito delle sue elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l’Europarlamento, dà un’idea dell’orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l’azione di Mario Monti «sul principio di ricostruzione della fiducia », ma precisa che questo sostegno non si applica «ai dettagli delle misure». Le grandi manovre sono in atto, per prendere le distanze da una politica che non ha dato i risultati promessi.
La Repubblica 11.01.13