L’Accordo fra la Lega e il Pdl, molto probabilmente, si farà. Nonostante i dubbi della Lega. Ma Berlusconi non può farne a meno. Per non finire ai margini. Sconfitto dal Pd – vincitore annunciato. Vincitore annunciato, il Pd, con fin troppo anticipo, per non comportare qualche rischio. Ma anche, soprattutto, da Monti e dalle sue liste. Per coltivare la speranza di contare, nel futuro Parlamento, grazie a un buon risultato al Senato. Nel Nord e soprattutto in Lombardia, dove si vota anche per rinnovare il governatore e il Consiglio regionale. Un accordo, quindi, obbligato. Ma non è detto che convenga davvero a tutti. O meglio, conviene sicuramente a Berlusconi. Il quale rischia, altrimenti, non solo di perdere le elezioni, ma, soprattutto, la dissoluzione del Pdl. Il suo partito personale. Che da solo, non ha chance di competere. Ma se il Pdl e lo stesso Berlusconi non esercitassero, almeno, un potere di interferenza e di veto, in ambito parlamentare perderebbero anche il loro potere sul territorio. In altri termini: si perderebbero. Molto diversa è, invece, la posizione della Lega. Per oltre dicei anni alleata fedele di Berlusconi. Oggi rischia di diventare ostaggio del Cavaliere. Il quale, nel caso di mancato accordo, minaccia di far cadere tutte le giunte del Nord, dove la Lega è al governo con il centrodestra. Perché non è detto che l’intesa con Berlusconi e il Pdl offra alla Lega di Maroni benefici superiori ai costi – politici ed elettorali.
La Lega, infatti, attraversa una stagione difficile – da cui non è ancora uscita. Dopo essere stata coinvolta da scandali che hanno investito i suoi gruppi dirigenti e, in primo luogo, la leadership di Umberto Bossi. Insieme al “cerchio” stretto dei suoi fedeli (e dei suoi familiari). Con effetti pesanti sul piano elettorale. In poche settimane, infatti, il peso elettorale leghista, stimato dai sondaggi, si è quasi dimezzato. Da oltre il 10% a meno del 5%. Per ragioni evidenti. La Lega ha costruito il proprio consenso sul principio della “diversità”. Dagli altri partiti. Dal “ceto politico”. Si è proposta e imposta come “alternativa”. Ha alimentato e intercettato il clima antipolitico perché considerata, a sua volta, non un partito. Ma un “anti-partito”. Alternativo e antagonista rispetto ai partiti “romani”. Lontani dal territorio e dalla società. Dal Nord – patria della rivolta contro il potere politico corrotto e inefficiente. Gli scandali dell’ultimo periodo hanno seriamente danneggiato il “principio della diversità” leghista. La Lega di lotta e di governo. Per questo motivo Roberto Maroni ha dovuto agire “contro” Bossi (suo amico di sempre). Ma soprattutto contro il cerchio di amici e familiari che gli stava intorno. E contro Berlusconi. Complice di Bossi. Interprete, ma anche simbolo, dell’intreccio fra politica e affari. Che riguarda il Cavaliere, sul piano personale, ma, ancor di più, il ceto politico del partito, a livello nazionale e locale. Reclutato sulla base della fedeltà e degli interessi, assai più che dei valori e della competenza. Forza Italia e il Pdl: partiti-azienda, emblemi della politica come marketing.
La Lega di Maroni, non a caso, ha preso le distanze da quel modello e dal suo artefice. Dal Cavaliere e dalla sua corte. Dalla classe politica del Pdl. Ha, invece, investito sugli amministratori locali e regionali, per fronteggiare, almeno sul territorio, i principali concorrenti. La “delusione” – che ha spinto molti elettori leghisti nell’area dell’indecisione e dell’astensione. Verso il M5S di Beppe Grillo, che ha intercettato l’insoddisfazione e la frustrazione di molti leghisti contro i partiti. Anche – soprattutto – nei confronti della Lega. Maroni. Ha rotto, per questo, con il centrodestra, insieme a cui governava la Lombardia. Ha, inoltre, fatto opposizione dura al governo Monti. Sostenuto, fino a novembre, anche da Berlusconi e dal Pdl.
Maroni. Per rappresentare la Lega all’esterno, si è affidato a figure molto diverse. Ma, comunque, visibili e presenti sui media. Un “antagonista”, dal linguaggio esplicito, come Matteo Salvini. Ma, soprattutto, un amministratore poco leghista, come Tosi. Sindaco di Verona. Ri-eletto, nel maggio 2012, in piena “crisi” della Lega, con il 57%, alla testa di una civica “personale”.
Il rischio, per la Lega di Maroni, è che l’accordo con Berlusconi e il Pdl vanifichi questo faticoso percorso di “riabilitazione”. Che, negli ultimi mesi, ha cominciato a produrre qualche piccolo risultato. Visto che i sondaggi la danno in – lenta – risalita. Oltre la soglia del 5%. (Più di quanto aveva ottenuto alle politiche del 2006.) D’altronde, gli elettori “delusi”, che hanno abbandonato la Lega nell’ultimo anno, si mostrano diffidenti nei confronti di Berlusconi. Gli preferiscono Grillo. Mentre gli stessi elettori “fedeli” appaiono tiepidi verso il Cavaliere. L’ipotesi, avanzata da Berlusconi, di affidare a un altro – Alfano o perfino Tremonti – il ruolo di premier, non risolve il problema. Perché il leader della coalizione rimarrebbe lo stesso. Visto che nel Pdl a comandare è – e resterebbe – uno solo. Berlusconi.
Da ciò il dubbio (confermato da alcuni sondaggi). La Lega, presentandosi da sola, con un proprio candidato premier (per esempio: Tosi), potrebbe allargare notevolmente gli attuali consensi. Molto più che se si presentasse in compagnia di Berlusconi e del Pdl. La Lega, tuttavia, è indotta a siglare l’accordo per il timore di perdere la rappresentanza in Parlamento. Per competere alla presidenza della Lombardia. Per non rischiare la presidenza del Veneto e del Piemonte.
In questo caso, però, l’immagine dei lunedì, ad Arcore, con Bossi e il figlio a cena da Berlusconi: riapparirebbe. E comprometterebbe la ricostruzione – della credibilità – avviata la primavera scorsa. Ancor più delle inchieste della Procura. (È di ieri l’ultima, sulle spese del gruppo al Senato).
L’accordo tra Berlusconi e la Lega appare, dunque, probabile, anzi quasi certo. Berlusconi ne ha bisogno ed è disposto a tutto pur di siglarlo. Mentre alla Lega pone un’alternativa insidiosa. Un dilemma difficile. Perdere – subito – il governo delle regioni del Nord. O rischiare di perdere, per sempre.
Voti e identità.
La Repubblica 07.01.13