Dopo più di quattro anni di crisi ininterrotta, ciascuno di noi ha almeno un parente o un amico in difficoltà perché ha perso il lavoro; il traguardo della pensione appare distante; i figli restano a carico. Facciamo i conti con i problemi immediati del reddito venuto a mancare e col turbamento determinato da un inatteso cambiamento di status sociale. Senza contare i giovani, che ormai ci siamo abituati a sopportare precari per definizione. Come aiutarli, come aiutarci? Impossibile voltare le spalle: anche i fortunati hanno relazioni che li coinvolgono in un dramma fino a ieri vissuto privatamente, con vergogna; ma che ora s’impone dappertutto come esperienza da condividere.
Come aiutarli, come aiutarci? L’urgenza degli interrogativi pratici non trova certo risposta nelle futuribili riforme degli ammortizzatori sociali propagandate nelle agende della campagna elettorale: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito (o di sopravvivenza)… per ora sono solo chiacchiere. Intanto che si fa?
Si calcolano i risparmi, la possibilità di sospendere il mutuo, quanto dureranno i soldi della liquidazione, ospitalità provvisorie, lavoretti-tampone, durata ulteriore delle spese universitarie, vendita di beni superflui. La società reagisce allo smottamento attivando spontanee reti di sostegno molecolare che naturalmente funzionano meglio là dove si erano distribuite in passato quote significative della ricchezza nazionale. Percepiamo di dover fronteggiare ancora a lungo una stagione di penuria. Quali che siano le previsioni “macro” degli esperti sulla crescita del Pil, vera e propria mitologica araba fenice, è la dimensione «micro» dell’economia che s’impone nella quotidianità delle persone.
Fin troppo facile sarebbe ironizzare sul distacco fra questo dato esistenziale e le diatribe interne della politica (o dell’antipolitica). Più rilevante a me pare indagare le contromisure già in atto, dettate dall’urgenza, nei reticoli di un organismo sociale disomogeneo e sofferente ma tutto sommato consapevole di dover fare da sé.
È chiaro che il compito prioritario della politica nel 2013 e negli anni a venire dovrà essere l’organizzazione di una risposta collettiva all’impoverimento causato dalla perdita del lavoro e dalle sofferenze che essa comporta. Anche in termini di lacerazioni familiari, oltre che di compressione dei consumi e sconvolgimento delle abitudini di vita. Il governo e la classe politica saranno chiamati a dedicarsi alla ricostruzione di uno spirito comunitario senza cui non c’è protezione sociale che tenga. Ma su quali energie vitali, su quale sensibilità civile potrà far leva la buona politica, per assolvere a un compito che si presenta immane in un’Italia che ha già visto l’85% delle famiglie tagliare i consumi e perderà altre centinaia di migliaia di posti di lavoro nei prossimi mesi?
Fu nel 1932 che Roosevelt si presentò alla società americana sconvolta dalla Grande Depressione cominciata tre anni prima come il leader intenzionato a «preoccuparsi dell’uomo dimenticato in fondo alla piramide economica», dichiarando la volontà di trasferire nella sfera politica l’impulso religioso della carità per porre fine all’«epoca dell’egoismo», dominata dai “sultani della proprietà”. Roosevelt denunciava la “mancanza di comprensione dei principi elementari della giustizia e dell’equità” di cui si erano macchiati i detentori di grandi ricchezze; da ribaltare – in un’epoca di scarsità permanente – sotto forma di nuovo spirito pubblico: l’America doveva stringersi intorno ai suoi poveri e riorganizzarsi come società solidale nel New Deal. I suoi toni e i suoi argomenti nell’Italia contemporanea sarebbero forse tacciati di estremismo anticapitalista, ma esercitarono dentro alla crisi, che pure si prolungò drammaticamente per tutto il decennio, un effetto culturale straordinario: legittimarono uno spirito di resistenza che si fondava dal basso sul senso di comunità; più precisamente su una galassia di comunità riunitesi intorno alla cura dei soggetti precipitati nell’indigenza.
Avvertiamo la mancanza di un tale impeto nel nostro discorso pubblico. Ma anche queste sono solo parole, suggestioni storiche. Meglio chiederci, allora, quali insegnamenti trarre dalle pratiche già in atto di auto-aiuto tra persone e famiglie in difficoltà. Per usare una parola antica e gloriosa del lessico cooperativo: restituiamo il valore che merita all’esperienza del mutuo soccorso.
È vero che, un secolo dopo, in una collettività come la nostra che ha mitizzato il lusso alla portata di tutti e trasformato i bisogni in desideri di consumo, la disperazione sociale può dare luogo a reazioni inconsulte. Ce lo confermano i pellegrinaggi nei centri commerciali divenuti luoghi di ritrovo anche per chi ha essiccato la sua carta di credito (o non l’ha mai posseduta). Giungono come avvertimenti sinistri i saccheggi perpetrati da bande di giovani dropouts nei negozi di elettronica per impossessarsi dei tablets e degli altri status symbol, a Londra come in Argentina. E domani, chissà, forse anche nella nostra penisola: non c’è solo l’Italia degli operai licenziati e dei precari del pubblico impiego; siamo anche il paese dei forconi, dei clan, delle corporazioni, degli allevatori e dei camionisti affiliati a un sindacalismo intrecciato con poteri opachi. La sistematica delegittimazione dei corpi intermedi della nostra società – dalle strutture democratiche dei partiti all’associazionismo solidale fino alle organizzazioni di base del lavoro dipendente – ha lasciato un vuoto di cui oggi avvertiamo i danni. A chi rivolgersi, nel momento della necessità?
Eppure l’aspirazione a una nuova socialità diffusa sta già esprimendosi, lontano dalla ribalta mediatica in cui predominano la politica e l’antipolitica. Intorno ai nostri amici e ai nostri parenti che hanno perso il lavoro si manifesta, con il bisogno, la pulsione spontanea a rigenerare comunità fra simili. Una nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci, la trasformazione delle sedi pubbliche mortificate dalla burocrazia in luoghi comunitari, non sono un’utopia ma una necessità vitale. Qui e ora, coinvolgendo le troppe energie rimaste a spasso. La politica potrà trarne insegnamento, ritrovare il senso della comune cittadinanza che nasce – nella penuria – dall’obbligo del mutuo soccorso.
La Repubblica 02.01.13
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