C’è un’immigrazione contro la quale non servono le motovedette per intercettare i barconi. E’ quella dei «cervelli». Che da noi non vengono comunque. Fermati, prima che dai guardiani alla frontiera, dal filo spinato di una politica insensata del lavoro, della ricerca, dell’intelligenza.Xenofoba non per razzismo ma per pigrizia, clientelismo, gelosia accademica e professionale. Risultato: su 20 milioni di laureati dei paesi Ocse che arricchiscono i paesi nei quali si sono trasferiti, quelli che hanno scelto l’Italia sono lo 0,7%. Meno di quanti hanno scelto la Turchia.
Un dato umiliante. Che emerge da un dettagliatissimo rapporto che animerà sabato a Pisa il convegno «Brain Drain and Brain Gain» (un gioco di parole sui cervelli in fuga e cervelli guadagnati) organizzato alla Scuola Superiore «Sant’Anna » dalla fondazione Rodolfo Debenedetti con la partecipazione, tra gli altri, di Maria Stella Gelmini. Intitolato «La battaglia dei cervelli: come attrarre i talenti» e curato da ricercatori di vari paesi (Herbert Brucker della IAB, Simone Bertoli dell’Istituto Universitario Europeo, Giovanni Facchini della Statale di Milano), Anna Maria Mayda della Georgetown University e Giovanni Peri della californiana University of Davis), il rapporto esamina «le conseguenze della competizione internazionale per la manodopera altamente qualificata dal punto di vista dei paesi che ricevono i talenti». E i numeri, che sono sì del 2001 (ultimo censimento disponibile) ma sono inediti perché elaborati in questi mesi, ci fanno arrossire.
Vi si spiega infatti che, a causa dell’«attuale sistema a quote» che «non mira a selezionare i lavoratori più qualificati», gli stranieri laureati che vivono da noi «sono il 12% del totale, di cui solo l’1,8% possiede anche una specializzazione post-laurea». Si tratta della percentuale più bassa tra i paesi dei quali sono disponibili i dati del censimento. Di più: «Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese sono mediamente più istruiti degli italiani, ma meno degli immigrati che si dirigono in altri Paesi europei, soprattutto in quelli che adottano politiche di immigrazione selettive». Qualche esempio? In Italia ogni cento laureati nazionali ce ne sono 2,3 stranieri contro una media Ocse di 10,45. Negli Usa ce ne sono 11 abbondanti, in Austria 12, in Svezia 14, in Olanda e Gran Bretagna 16, in Nuova Zelanda 21, in Canada 25, in Irlanda 26, in Australia addirittura 44.
Va da sé che il rapporto fra «cervelli» che esportiamo e importiamo è perdente. I laureati italiani che se ne sono andati a lavorare nei 30 paesi Ocse sono 395.229. Quelli che hanno fatto il percorso inverso 57.515. Con un saldo negativo di 337.714 «dottori». Saldo che, anche ad aggiungere gli 84.903 laureati arrivati da paesi non Ocse, resta altissimo: ci mancano 252.811 «teste». Gente che, mentre importavamo mungitori di mucche pakistani e raccoglitori di pomodori nigeriani, ha regalato intelligenza, preparazione, fantasia a università e istituti di ricerca e aziende e sistemi professionali meno arroccati dei nostri.
Certo, non siamo i soli ad avere un saldo in rosso. Anche la Francia per esempio, rispetto al panorama import-export all’interno dell’Ocse, è sotto di circa 70mila «cervelli». La Spagna di 43mila, l’Olanda di 84mila, la Germania addirittura di 370mila.
Ma tutte queste grandi nazioni (tranne la Gran Bretagna, sulla quale pesa la storica emorragia verso l’ex colonia americana) non solo attirano molti ma molti più laureati di noi ma recuperano con l’immigrazione qualificata dai paesi non Ocse fino ad andare in attivo. Peggio di noi stanno solo la Corea, il Messico e la Polonia.
Quanto ai poli di attrazione, fanno invidia il Canada (che tra immigrati laureati di paesi Ocse e non Ocse va in attivo di due milioni e 200 mila unità), l’Australia (in attivo di un milione e 520mila) e gli Stati Uniti, capaci di attrarre complessivamente quasi dieci milioni di «dottori» stranieri. Una forza d’urto intellettuale, scientifica, professionale impressionante. Che straccia ogni confronto. E che proprio in momenti di crisi quale questo rischia di pesare come l’enorme differenza tra loro e noi. Con le nostre università piene di mogli, figli e cognati. I nostri istituti di ricerca asfissiati da continui tagli di bilancio. Le nostre aziende familiari dove il padre preferisce passare al figlio, magari un po’ «mona», piuttosto che affidarsi a «forestieri». I nostri Ordini sbarrati con i catenacci verso i giovani «intrusi».
Certo, quelle degli altri sono società «multietniche». Che qualcuno, da noi, guarda con fastidio. Ma ce la possiamo permettere una società ermeticamente chiusa e protetta non solo dalle motovedette ma anche dai vigilantes degli orticelli scientifici e professionali in un mondo in cui, come spiegava l’altra settimana sul «Sole 24 ore» Giorgio Barba Navaretti, i lavoratori immigrati sono «uno ogni quattro in Australia, ogni sei negli Usa, ogni nove in Gran Bretagna e ogni quindici in Italia »? Certo è che i risultati sono lì, nella tabella del rapporto di Pisa: dei 20.426.737 «cervelli» del gruppo Ocse che si sono sparpagliati per il mondo contribuendo alla ricchezza dei paesi prescelti, più della metà sono finiti negli Usa, un settimo nel Canada, un dodicesimo in Australia. E solo 7 su mille (sette su mille!) hanno scelto la penisola di Leonardo Da Vinci, Antonio Meucci, Enrico Fermi che non a caso forse se n’erano andati loro pure all’estero. Fate voi i conti: di questo immenso patrimonio umano e intellettuale mondiale siamo riusciti ad attingere sette gocce: la metà della Svizzera, un quarto della Francia, un settimo della Germania, un nono della Gran Bretagna. E meno male che abbiamo il sole, Venezia, Capri, la pizza, il prosecco…
Corriere della Sera, 20 maggio 2009