attualità, politica italiana

“La vera sfida dell’innovazione”, di Alfredo Reichlin

Se parto dall’Italia e dai suoi interessi fondamentali – come mi hanno insegnato che bisognerebbe sempre fare – l’iniziativa di Mario Monti ha, ai miei occhi, un grande merito. Ha contibuito a rendere più chiaro il terreno vero dello scontro e la posta fondamentale che è in gioco, quella dove al fondo si decide per un lungo periodo che cosa sarà il destino degli italiani. Parlo della necessità di ripensare i «fondamentali» del nostro Paese (modello economico, tipo di società, demografia, cultura diffusa, posto dalla donna, eccetera) in rapporto al fatto storicamente inedito che stiamo sempre più entrando nella formazione di un organismo sovranazionale: l’Europa. Per cui, se ne restiamo fuori, un destino di decadenza e di immaginazione storica diventa inevitabile.
Questa è la vera posta in gioco, ciò che rende così drammatica la scelta che farà fra poche settimane l’elettorato. Non ha quindi molto senso sostenere che non esiste più il discrimine tra destra e sinistra.
Teniamo conto professor Monti che, secondo gli ultimi sondaggi, le forze esplicitamente antieuropeiste (la somma di Berlusconi, Grillo, la Lega e frattaglie varie) si avvicina al 50%. Ecco la vera destra. Esiste, eccome. Ed è su questo sfondo che io misuro l’importanza della rottura con Berlusconi da parte di forze centriste e moderate che pure lo avevano molto frequentato (e non parlo solo dell’Udc di Casini). Ecco dove sta la necessità di mantenere aperto un confronto costruttivo. Ma il dialogo a cui noi pensiamo è ben più di un’operazione politica, qualcosa cioè che riguarda solo i partiti e la lotta tra loro. Nasce dalla profonda convinzione che di idee nuove e di visioni nuove della realtà e del futuro ha bisogno tutta l’Italia. Questo è il senso della nostra ostinata ricerca di dialogo. Far emergere i problemi reali e dare la parola alle forze reali, aiutare il Paese reale (e noi stessi insieme) a produrre una nuova cultura politica e una più alta idea di sé e dei problemi irrisolti. Fare, insomma, un salto di qualità per metterci in grado di affrontare questa dura prova della europeizzazione.
Questa è la risposta alla sfida che, del tutto legittimamente, il professor Monti rivolge anche al Pd. La sfida dell’innovazione: che è davvero la cosa di cui l’Italia ha un bisogno estremo se vuole sfuggire al rischio incombente, anzi già in atto, di una decadenza storica. Sarebbe veramente magnifico se la campagna elettorale si facesse su questo tema, dove ciascuno si impegna a dire al Paese la verità. Perché l’Italia è entrata in questa spirale drammatica? Per Berlusconi? Per l’euro? Per le speculazioni finanziarie? Per il «conservatorismo della Cgil»? In tutto c’è qualcosa di vero. Ma io penso che non si può più nascondere agli italiani che il Paese è fermo rispetto a tutti gli altri Paesi europei da ben prima dell’avvento dell’euro e della grande crisi finanziaria. È da almeno trent’anni che arretra e che la sua struttura sociale e produttiva non regge, al punto da accumulare un enorme debito pubblico (il terzo del mondo) e al tempo stesso un’evasione fiscale e una corruzione senza paragoni in Europa.
Smettiamola quindi con lo scandalizzarci a vuoto e con l’eterna futile e anacronistica lotta tra inesistenti liberisti e statalisti. Si è rotto qualcosa di molto più profondo. Sono rimasto stupito nel sentire Monti rilanciare la polemica con la Cgil sulla questione certamente cruciale della produttività, senza però pronunciare mai nemmeno una volta la parola Mezzogiorno: il 40% del Paese abbandonato a se stesso che consuma più di quello che produce e distrugge capitale sociale, più di metà dei giovani disoccupati. E tutto ciò insieme con quella cosa essenziale che è l’unità del Paese, la sua fiducia nella legge uguale, il rifiuto di sottostare al dominio delle mafie e delle camorre.
Conosco la complessità del problema e le sue origini molto lontane. Ciò che denuncio però è la specifica responsabilità non solo di Bossi, ma dell’insieme della classe dirigente del Nord (compresa quella della Bocconi e del Corriere della Sera) che in questi anni ha compiuto la scelta catastrofica di pensare che il suo interesse era cancellare la questio- ne meridionale.
Questo è un vero banco di prova di ciò che è innovazione e di ciò che è conservazione. E un analogo discorso farei a proposito dell’altro grande tema: il lavoro. C’è certamente un problema di regole e di organizzazione del mercato del lavoro. Viva le regole. Ma come pensate di sfuggire al problema più grande, che è ormai quello del posto del lavoro in un progetto di rilancio dello sviluppo italiano? Il lavoro è una merce molto particolare. Il miglioramento della sua attuale miserrima condizione non è solo un problema di giustizia. È la condizione per rinnovare davvero qualco- sa di profondo in questo sistema così inefficiente e sgangherato. Conosciamo i vincoli di finanza pubblica e intendiamo rispettarli. Ma ricordiamoci il made in Italy, la grande innovazione dell’Italia del dopoguerra che non è nata a causa di massicci investimenti pubblici, ma da un nuovo impasto politico e sociale. Noi non abbiamo in testa una nuova economia di Stato. Ma sappiamo molto bene che nelle economie moderne il differenziale tra loro si misura in termini di qualità delle persone, dei luoghi, delle scuole e delle istituzioni. Il super potere finanziario ha inondato il mondo di debiti e ha distrutto ricchezza reale e tessuto sociale. Sostanzialmente ha fallito. Pensare all’Europa come a un nuovo possibile modello di crescita è giusto ma significa, dopo tutto, mutare le relazioni tra economia e società definendo un nuovo orizzonte politico e affrontando una nuova mappa dei conflitti che riguardano non solo le classi ma il controllo del sapere, i diritti di cittadinanza, il ruolo delle donne, la sostenibilità sociale.
L’innovazione non si esaurisce nelle politiche monetarie. Consiste nel rimettere in gioco la creatività degli uomini moderni. E qui sta il fondamento del nostro pensare il futuro del popolo italiano.
l’Unità 27.12.12