«Qualcosa mi dice di non candidarmi», aveva confessato Mario Monti nel colloquio con Eugenio Scalfari su Repubblica di ieri. Quella «voce di dentro», che in lui covava da tempo insieme a quelle che invece, da fuori, lo spingevano a candidarsi, alla fine ha avuto un peso. L’ultima conferenza stampa del Professore cerimonia di commiato di un tecnico al capolinea, non si è trasformata nell’epifania di un leader pronto a «salire in politica» con la sua faccia e con la sua lista. Monti, per ora, non si candida. O meglio: si candida, ma a modo suo. Da «candidato riluttante».
Si propone cioè nell’unico modo in cui può farlo un senatore a vita obbligato a un profilo di terzietà, e in cui sa farlo un civil servant disposto ad essere «chiamato » dall’establishment, piuttosto che votato dal popolo. Mette se stesso, e la sua Agenda, a disposizione del Paese e di chi, tra i partiti, vorrà assumere questo intero «pacchetto» come architrave costituente della prossima legislatura. Se questo accadrà, e se glielo chiederanno espressamente, lui sarà pronto a valutare un’eventuale premiership. La linea è sfumata. Il lessico è fumoso. Più che Alcide De Gasperi, la formula montiana ricorda Aldo Moro. Ma il senso di marcia, di qui alle elezioni del 24 febbraio, è ormai abbastanza chiaro. Stretto tra la moral suasion di Napolitano (fautore del principio di imparzialità imposto dal laticlavio senatoriale) e la forza dissuasiva dei sondaggi (finora infausti per le formazioni moderate) il Professore si tiene ancora aperte tutte le porte. In entrata, se la proposta dell’ipotetica «coalition of the willing» che lui auspica lo convincerà. Ma anche in uscita, se invece non ci saranno le condizioni di «credibilità» dell’offerta che lui ritiene indispensabili.
Il premier uscente interrompe così l’insostenibile melina di questi ultimi giorni, e rilancia la palla nella metà campo dei partiti. Dicano loro che «uso» vogliono fare del montismo, e dell’eredità positiva lasciata da questo governo di «salvezza nazionale». Poi lui deciderà. Questa mossa presta il fianco ad almeno due critiche. Da un lato, prolunga il clima di incertezza sulla geometria e la fisionomia degli schieramenti in vista del voto di febbraio. Dall’altro lato, riflette lo stesso schema emergenziale dal quale è nato un anno fa il governo tecnico: la «democrazia degli ottimati» che prevale, ancora una volta, sulla democrazia degli eletti. Ma in questa mossa c’è anche una svolta strutturale. Un gigantesco «cambio di gioco», di cui Monti diventa l’artefice. Nella bolla di relativa incertezza, che il Professore non ha voluto sgonfiare per ragioni di coerenza istituzionale di convenienza personale, ci sono alcune certezze ormai evidenti. Destinate a incidere profondamente sulla campagna elettorale e sulle prospettive della prossima legislatura.
La prima certezza è la rottura, insanabile e definitiva, con la destra berlusconiana. Al di là delle cortesie formali, che fanno parte del collaudato fairplay montiano, il premier uscente ha liquidato l’epopea populista e cesarista del Cavaliere con parole eleganti, ma taglienti come la lama di un rasoio. Lo «sbigottimento» di fronte alle schizofrenie quotidiane di Berlusconi riassume e riflette lo sconcerto di tanti italiani. Già nella conversazione con Scalfari, il premier uscente aveva escluso una possibile alleanza con il Pdl: «Non lo farò mai». Ora, questa sentenza diventa inappellabile. Quando Monti arriva ad esprimere «fatica nel seguire la linearità del pensiero» di Berlusconi, e a parlare di una «comprensione mentale che mi sfugge », non c’è più altro da aggiungere. Il berlusconismo è archiviato. E questa destra, ancora una volta dominata dalla figura tragicomica del suo padre padrone, è inservibile per qualunque progetto costituente. Averlo detto con assoluta chiarezza di fronte all’opinione pubblica non è solo un gesto di coraggio, ma anche un atto di forza del Professore, che in questo anno di tormentata coabitazione con il Cavaliere ha dovuto ingoiare fin troppi rospi, senza mai potersi togliere la soddisfazione di urlare la sua verità. Ora questa verità è venuta a galla, ed è un bene per tutti.
La seconda certezza è speculare alla prima. Se davvero anche Monti pensa ed agisce nella logica di un futuro governo «pienamente politico», questo significa che i possibili alleati di una futura maggioranza che non si vuole più «strana» ma «normale», non potranno essere che il nuovo centro di Monti (Grande o Piccolo che sia) e il centrosinistra di Bersani. Questo carica tutti di enormi responsabilità. Il premier uscente lo ha già detto a Scalfari: «Considero indispensabile un’alleanza post-elettorale con il Pd». Ma nel frattempo, pur nella validità del suo paradigma che ruota intorno all’alternativa cambiamento/conservazione, dovrà convincersi che esiste ancora una sinistra diversa dalla destra, e che non tutto quello che è stato fatto dal suo governo (sul fronte dolente della crescita e dell’equità sociale) va preservato e venerato come un totem. I centristi di Casini e Montezemolo, che si identificano nel Professore, dovranno dimostrarsi all’altezza del compito. Rinunciando per sempre alle tattiche andreottiane dei due forni. Incarnando al meglio la cultura del popolarismo europeo, piuttosto che l’incultura del tatticismo doroteo. Selezionando con cura le liste dei propri candidati, come gli chiede implicitamente lo stesso Monti, prima di scendere in campo con loro o anche solo prima di dar loro la sua «benedizione».
Infine, il Pd. Bersani fa benissimo a ricordare al Professore che ora la parola spetta ai
cittadini-elettori. Il segretario sa che, prima del voto, con Monti funzionerà un meccanismo di competizione. Ma sa anche che, dopo il voto, sarà opportuno (se non addirittura necessario) un meccanismo di collaborazione. Andranno studiati i tempi e le forme. Ma è uno sbocco quasi inevitabile. Prima di tutto per scongiurare l’ipotesi di un «pareggio » al Senato, dove il premio su base regionale può favorire l’asse Pdl-Lega in regioni chiave come il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. E poi perché, per un Partito democratico che punta finalmente a riscoprire la famosa «vocazione maggioritaria», la prospettiva della completa autosufficienza può rivelarsi controproducente. Vellica il settarismo del vecchio Pci, ma non aiuta la nascita di un riformismo nuovo e moderno.
Se è legittimo e giusto rivendicare un programma imperniato su una maggiore equità sociale, sulla difesa dei diritti e dei deboli, è altrettanto legittimo e giusto allargare il perimetro della rappresentanza, e adoperarsi per rendere finalmente possibile un vero patto tra moderati e progressisti. Le istanze ugualitarie di Vendola, e le rivendicazioni protestatarie della Cgil, sono una risorsa della sinistra. Ma non possono e non devono esaurirne la spinta, a meno che non ci si voglia rinchiudere nella «fortezza» dell’esistente.
Da ieri il quadro politico è già cambiato. Grazie a Monti, l’Italia è uscita dal baratro finanziario nel quale stava precipitando. Grazie a Monti, qualunque sia il giudizio sul suo operato e sui singoli punti della sua Agenda, l’Italia ha oggi un ancoraggio solidissimo con l’Europa. E grazie a Monti, il bipolarismo italiano è già diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi vent’anni. Con la definitiva esclusione della destra forza-leghista dal perimetro della governabilità, cade quella «anomalia necessaria» che ha giustificato le Larghe Intese di un anno fa. L’incubo della Grande Coalizione con Berlusconi, da oggi, non è più all’orizzonte. La stagione dei patti col diavolo è finita. Il Paradiso resta ancora lontano. Ma stavolta, forse, possiamo almeno uscire dall’Inferno.
La Repubblica 24.12.12
Pubblicato il 24 Dicembre 2012