«È ormai evidente che l’università francese non è più solo in crisi. È prossima all’agonia». Inizia così il manifesto firmato da oltre 550 professori d’Oltralpe: dai filosofi Gauchet e Karsenty al giurista Carcassonne, dal matematico Demailly al sociologo Dubet. «Personalità prestigiose — scriveva sabato, in prima pagina, Le Monde — che si dichiarano partigiane di un’autonomia degli istituti nel rispetto della collegialità e critiche verso la concorrenza dellegrandes ecolés (le élites dell’amministrazione, ndr) », proponendo l’istituzione di un «servizio propedeutico» per garantire a tutti i neodiplomati il diritto a proseguire gli studi ma anche una riforma del sistema di reclutamento dei docenti.
Il manifesto «per la rifondazione dell’università » è l’ultimo atto del movimento di contestazione d’Oltralpe. Venticinque settimane di manifestazioni, professori e studenti a braccetto nelle piazze. In Francia, dunque. Ma anche in Spagna, contro il «processo di Bologna», cioè l’armonizzazione a livello europeo dei titoli di studio superiore. E in Italia, dalle proteste contro i tagli dello scorso autunno agli scontri di ieri mattina a Torino.
Che sta succedendo, dunque, all’università — in Italia, in Europa, nel mondo? Di certo, a sentire Giulio Ballio, c’è che «questo non è il ’68. Allora la contestazione era degli studenti contro i professori; oggi c’è una saldatura. Perché la crisi che attraversa l’università, a livello europeo, è il risultato di una miscela esplosiva ». Elenca il rettore del Politecnico di Milano: «Studenti aumentati esponenzialmente dagli anni ’70, docenti e richiesta di risorse pure. Numeri non sostenuti da sbocchi professionali e finanziamenti adeguati, in un sistema scollegato dal mondo produttivo».
A Torino, in un Castello del Valentino illuminato dal tramonto, si è appena conclusa la prima giornata del G8 delle università: 41 rettori e presidenti di ateneo provenienti da tutto il mondo, riuniti per discutere di economia, etica, ecologia ed energia. E, soprattutto, per «rivendicare — spiega Enrico Decleva, presidente della Crui (la conferenza dei rettori) — il ruolo autonomo e insostituibile del sistema universitario ». Un ruolo che «torni a essere fattore strategico, come lo è già stato in alcuni momenti chiave della storia». Là fuori, però, l’Onda preme.
Perché anche in Italia, all’interno dello stesso mondo accademico, si muovono forze critiche che spingono per una riforma «dal basso». «Le proteste sono il segno che l’università sta cambiando. E oggettivamente la riforma è un bisogno reale: dall’ultima sono passati trent’anni, e già eravamo in ritardo su Francia, Spagna ».
La crisi, dunque, esiste. «Ed è una crisi di reputazione, credibilità, autorevolezza», sintetizza il rettore del Politecnico torinese Francesco Profumo. Pei Gang, presidente della Tong Ji University di Shanghai al G8 di Torino, trova parole antiche per un concetto attualissimo: «Il nome della mia università viene da una frase idiomatica cinese, e significa ‘molte persone sulla stessa barca’. Ecco, oggi noi, che veniamo da ogni angolo del mondo, siamo tutti sulla stessa barca». «Quello che colpisce — concorda Profumo — è l’uniformità di linguaggi: in Giappone, 6-7 anni fa hanno iniziato sperimentazioni analoghe a quelle sorte in Europa».
Un fronte comune contro la crisi, dunque. Dal Collège de France, a Parigi, gli fa eco Carlo Ossola: anche per lui la «rifondazione» è necessaria, e deve avvenire a livello comunitario. «Il contesto di un quadro di riferimento europeo è un bene: c’è una ‘generazione Erasmus’ che spero possa divenire il fulcro di una cittadinanza europea condivisa — spiega —. Questa reciproca permeabilità pone tuttavia le università europee in collaborazione e insieme in competizione. A questo dato si deve aggiungere un sistema comunitario del finanziamento alla ricerca; le risorse destinate dai singoli Stati alla ricerca sono insufficienti rispetto alla competizione internazionale. Se non troppo burocratizzata, la ricerca dovrebbe essere competenza della Comunità ».
Risposte globali per un problema comune. A Torino, ieri, Profumo invitava a «invertire le tendenze del passato, tese alla stratificazione e alla frammentazione», lanciando la proposta di un «Centro globale di ricerca virtuale» sullo sviuppo sostenibile. L’Italia, del resto, avrebbe solo da guadagnarci. Un po’ perché, riassume Ossola, «da noi la situazione è molto più grave. Non sono state destinate risorse neppure sufficienti a coprire parte dei debiti che stanno strozzando i bilanci degli atenei». Dagli altri Paesi, poi, potremmo mutuare strutture «come l’agenzia per la valutazione del sistema universitario — ricorda Decleva —. La Gran Bretagna ce l’ha da anni, la Francia è partita, la Spagna pure. Quanto ai tagli, sono imposti dalla realtà. Il problema è trovare la misura».
Marino Regini, prorettore della Statale di Milano, ragiona a livello comunitario: «Dobbiamo internazionalizzare di più gli atenei europei e democratizzare l’accesso; siamo all’ultimo posto Ue per il diritto allo studio». Poi c’è il numero di laureati con esperienze in altri Paesi Ue: «Il processo di Bologna — ricorda Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea — prevede che siano il 20%, noi siamo al 6».
Gli studenti, appunto. Ieri, al G8 dei rettori, è stato letto il documento stilato dieci giorni fa, a Palermo, da quello degli studenti.
«Bisognerebbe dare loro maggior peso — riconosce Decleva —. Questa generazione mi sembra più impegnata di altre, la loro partecipazione è fondamentale ».
Professori e studenti a braccetto anche in Italia non solo contro i tagli? Chissà. Tutto, pur di salvare l’università dalla sua agonia.
Corriere della Sera, 19 maggio 2009