Nelle crisi, spiegava Gramsci, le oligarchie del denaro si scagliano contro le élite della politica e rivendicano il potere. Come vent’anni fa. Allora l’assalto fu condotto con una coalizione che usava il dialetto periferico dell’asse del Nord, ora nella scalata al governo si parla il linguaggio cosmopolitico dell’alta finanza. La crisi italiana non può però trovare rimedio nelle nuove alchimie trasformistiche dei poteri forti. La pretesa di arrestare il declino con cartelli confusi, a sostegno di un capo che invoca lo scettro per grazia ricevuta, ha un che di tragico.
Significa non aver compreso nulla della dinamica storica che ha accompagnato la seconda Repubblica verso la catastrofe. Negli anni ’90, l’Italia ha vissuto uno sconvolgimento radicale nelle sue classi dirigenti, nel modello economico-sociale, nelle mentalità.
Fu una vera «crisi di egemonia», con il fallimento delle classi dirigenti nel mantenere la rappresentanza degli interessi sociali di riferimento e nel preservare una cornice unitaria alla disordinata rivendicazione dei territori. Il collasso dell’élite politica lasciò senza rappresentanza spazi e interessi rilevanti. Con la grande trasformazione dell’economia degli anni ‘80, e con il vincolo europeo che annunciava costi elevati per il risanamento dei conti, i gruppi sociali del Nord, privati di rappresentanza, si difesero con nuovi investimenti in politica. Populismo, come forma simbolica della rivolta contro le élite, e scorciatoia carismatica, come semplificazione dell’offerta politica, divennero i loro nuovi referenti di senso. Con questi accorgimenti, e con la fuga dalla cultura di governo, il micro capitalismo dei territori e fette di lavoro autonomo ritrovarono una identità, nelle forme però della alienazione, della separatezza, dell’antipolitica.
La crisi della funzione rappresentativa suggerì una scaltra autorappresentazione. Da qui il precipitare della funzione politica in ottica economico-corporativa, con ceti ossessionati dal fisco, nemici irriducibili degli imperativi di una moderna statualità capace di fornire beni pubblici. Con l’invenzione di un nuovo ceto politico e amministrativo connotato da improvvisazione, folclore e protesta, il micro capitalismo ha reciso ogni possibilità di governare con lucidità i tempi dell’innovazione competitiva. Proprio l’autorappresentazione degli interessi economici e territoriali più ristretti, che in politica prese subito le maschere devianti del populismo legislativo senza confini a destra, inibì le condizioni necessarie per la crescita e la modernizzazione. La vecchia politica era rimasta senza soggetti sociali forti da rappresentare, i nuovi ceti dal canto loro procedevano senza più coltivare la meta di una funzione politica generale. L’asse del Nord camminava in un pantano corporativo orfano del generale e si incagliava in una palude immobilista incapace di prospettare le strutture amministrative delle grandi decisioni politiche.
Il tratto organico della crisi italiana è riconducibile proprio all’egemonia del blocco sociale immobilista che ha conquistato il potere sulle rovine della grande industria e sul ritiro della mano pubblica come veicolo di investimenti produttivi. Con la decostruzione della macchina statale, con le sue istanze antifiscali e con i miti ostili al pubblico, il blocco sociale della destra si è rivelato incapace di sorreggere la crescita e di gestire l’innovazione. Se la decrescita è stata la condizione prevalente, la debolezza strutturale del governo politico (ovvero: partiti personali effimeri, amministrazione carente, decentramento ai limiti della de-formazione dello Stato) ha influito nel congelare i pilastri dello sviluppo e nell’arrugginire i motori della competizione. Una società sfibrata dai limiti congeniti del nano capitalismo, sfilacciata dalla destrutturazione della macchina pubblica e dal codice del populismo ha bisogno di una grande politica capace di ridefinire i tratti della statualità in un’economia globalizzata. Il contrario di quanto stanno architettando le oligarchie che in modo cieco si scagliano contro le élite politiche, che con difficoltà stanno ricomponendo la frattura tra politica e società. Il protagonismo delle oligarchie può solo svuotare il centro, che da autonoma dimensione politica viene trasfigurato in aggregazione di potenze economiche e finanziarie. La vana volontà di potenza delle oligarchie traccia un percorso regressivo e ribadisce un destino di immobilismo per l’Italia. Ostacolando la ricomparsa di autorevoli classi dirigenti, le oligarchie ossificano le contraddizioni del nano capitalismo, senza avere il trasporto egemonico per curarne l’alienazione politica, e favoriscono lo stallo delle forze produttive. Per tracciare un nuovo modello di statualità e ridisegnare un necessario patto tra democrazia e capitalismo che sconfigga la decrescita, servono anzitutto partiti forti che prendano in mano il governo della ricostruzione.
L’Unità 17.12.12
Pubblicato il 17 Dicembre 2012