L’Italia ha bisogno vitale di cambiare passo. Di aprire una nuova stagione di sviluppo e per fare questo di ridurre le disuguaglianze sociali, di abbattere le barriere corporative e i privilegi delle oligarchie, di spostare risorse dalla rendita al lavoro, di puntare sulla scuola, la ricerca e l’innovazione, di ricostruire una solidità istituzionale e politica dopo le torsioni della seconda Repubblica.
Il governo di Mario Monti ha salvato l’Italia dal baratro in cui l’aveva sospinta il populismo e l’antipolitica di Berlusconi. I meriti del premier vanno condivisi anzitutto con il Capo dello Stato, e in misura non marginale con quelle forze di opposizione al Cavaliere che hanno posto l’interesse nazionale davanti a quello di parte. I meriti del premier non sono neppure disgiunti da errori e da forti iniquità nelle successive manovre finanziarie.
Tuttavia è chiaro che Monti ha conquistato un credito presso gli italiani. La sua visione politica – ispirata a valori liberali e a culture distanti dalle sinistre cattoliche e socialiste – non gli ha impedito di cercare, nella difficile transizione, un terreno comune di ricostruzione nazionale. E il terreno europeo è stato certamente quello più propizio per rilanciare l’immagine dell’Italia, sfregiata dai governi Berlusconi. Doveva evitare il default e ha agito sul bilancio nei limiti imposti dall’esterno. È la sostanza dell’Agenda Monti, della quale tutti dovranno tener conto (anche i più critici) ma che tutti dovranno necessariamente superare (anche i più ossequiosi). L’obiettivo di un governo di transizione è pur sempre giungere alla meta. Altrimenti fallisce. Nella traversata la ferita più grave è stata quella degli esodati, «cancellati» da un taglio lineare. La riforma più inutile quella del mercato del lavoro, oggi bocciata da tutte le rappresentanze sociali. L’atto forse più forte in termini di recupero di un ruolo internazionale è stato il voto all’Onu a favore dello Stato palestinese: finalmente il ritorno alla storica politica estera del nostro Paese.
Ora Monti deve scegliere cosa fare per le elezioni. Ovviamente è una scelta che attiene anzitutto alla sua libertà. Ma ha già compiuto un atto politico – peraltro di grande forza – che condiziona i passi successivi. Con le dimissioni annunciate, ha scavato un fossato tra la sua politica e quella di Berlusconi e del Pdl. Ha detto, nei fatti, che un’area moderata, liberale, europeista può costituirsi in Italia solo rompendo inequivocabilmente con la demagogia della destra.
Da quel Ppe – che tiene insieme l’austera ortodossia della Merkel, gli europeisti moderati alla Juncker, il populismo di destra alla Orban – è arrivato un invito a Monti affinché si candidi in alternativa a Bersani. Per quante diversità ci siano nel centrodetra europeo, tutti i leader sono accomunati dal comprensibile desiderio di non rivedere più Berlusconi al loro tavolo. Comunque, c’è differenza tra essere capo di un centro che segna un confine invalicabile dal Pdl e un centrodestra indefinito, dove possano approdare, magari travestiti, i vecchi arnesi della destra berlusconiana.
Monti si è dimesso contro la scelta di Berlusconi e il discorso di Alfano alla Camera. Ma per porre i populismi, tutti i populismi, fuori dai futuri governi, non basta un suo auspicio. La decisione personale, se candidarsi o meno alle elezioni come premier, avrà conseguenze obiettive che incideranno sugli assetti di sistema e oltrepasseranno la sua stessa volontà. Se si candiderà premier contro Bersani, non potrà ragionevolmente impedire una convergenza della destra, e forse neppure un sostegno esterno di Berlusconi. Toglierà invece forza a una possibile convergenza post-elettorale, in chiave europea, del centrosinistra e del centro. Monti non sarebbe il premier di quel governo, ma potrebbe dargli un carattere maggiore di continuità, assumendo l’«espulsione» di Berlusconi come un carattere distintivo della transizione.
Qualcuno sostiene che una competizione Bersani-Monti ci avvicinerebbe alla normalità europea. È vero che abbiamo bisogno di tornare in Europa come sistema politico (dopo la vana illusione del modello anglosassone). Abbiamo bisogno di tornare alla dialettica destra-sinistra (alla faccia di chi diceva che non esistono più) ma dobbiamo anche darci un tempo per ricostruire il tessuto del bene comune, strappato dalla seconda Repubblica. Abbiamo bisogno di una legislatura costituente. In Italia e in Europa. In presenza di populismi così forti, anche nel nostro Paese, gli europeisti non possono declinare le loro responsabilità.
Il punto non è in quale misura Monti intenda sostenere la formazione di un nuovo Centro: faccia ciò che crede. Il corso della transizione italiana può mutare invece se Monti decide di candidarsi premier contro chi lo ha sostenuto in questi mesi, e tuttora lo sostiene. Sarebbe una scelta sbagliata. Non per il centrosinistra ma per l’Italia. Perché ci terrebbe imprigionati nella seconda Repubblica, riproducendo, con altri protagonisti, uno schema che ha già prodotto enormi danni. Uno schema dal quale il governo dei tecnici doveva aiutarci ad uscire.
L’Unità 16.12.12
Pubblicato il 16 Dicembre 2012