Alla fine degli anni ’90, in contemporanea con l’accelerazione sull’integrazione monetaria europea, ferveva il dibattito sulla natura e sulle prospettive dell’Unione, che poi sarebbe sfociato nel progetto di Costituzione elaborato, tra il 2002 e il 2003, dalla Convenzione europea. Già allora si poneva con forza la questione della democrazia in Europa, della democratizzazione e delle legittimità delle istituzioni comunitarie. Due scritti del 1998 lasciarono un segno fondamentale.
Il grande giurista italiano Giuseppe Federico Mancini, al tempo giudice alla Corte di Giustizia, articolò la necessità di uno Stato europeo (“The Case for Statehood”), non come luogo astratto, ma come spazio in cui esercitare e salvaguardare la democrazia e i diritti di cittadinanza. A suo avviso, “uno Stato europeo composto da una pluralità di nazioni eppure fondato su un demos, che derivi la propria legittimità dal consenso piuttosto che da comuni origini etniche e le proprie possibilità di sopravvivenza da lealtà civiche piuttosto che ancestrali, è senz’altro concepibile”.
Gli rispose un altro grande studioso del diritto europeo, Joseph Weiler, con “Europe: The Case against the Case for Statehood”, argomentando che il nuovo ruolo storico dell’Unione Europea fosse incompatibile con la rigidità della forma-Stato, e in ogni caso difficilmente raggiungibile.
Sono solo dispute accademiche? Non credo.
È una priorità politica capire che il rapporto tra l’Europa e gli Stati nazionali non può prescindere da quella consapevolezza intellettuale e culturale che si costruisce attraverso i pilastri dell’università e della ricerca. E la stessa crisi non può essere ridotta a fattore monetario ed economico, ma va considerata con schiettezza nel rapporto tra politica e cultura. È passato più di un decennio ma, tanto dai discorsi sugli Stati Uniti d’Europa, quanto dalle accelerazioni storiche impresse dall’europeizzazione della politica, compresi i confronti elettorali nazionali, vediamo quanto sia attuale la posta in gioco di questo dibattito, che ci aiuta a pensare l’Europa non in termini astratti e lontani, ma attraverso un “diritto vivente” che si interroga sulle possibilità della democrazia.
Ho ripensato a questo dialogo quando ho appreso che il professor Weiler è stato nominato presidente dell’Istituto Universitario Europeo e inizierà il suo mandato il 1° settembre 2013. L’Istituto è l’espressione più viva dell’Europa nel nostro Paese: nato da una convenzione tra i sei Paesi membri del 1972 e dalla volontà italiana di ospitare un Istituto di Ricerca a Fiesole, è attivo dal 1976. Un meraviglioso spazio di ricerca, che rappresenta una fucina unica per la classe dirigente europea e per la capacità di ricerca dei dottorandi e dei ricercatori: il 71% dei laureati continuano la loro carriera nell’università e in centri di ricerca, il 15% nelle istituzioni europee e in altre istituzioni internazionali, mentre il 14% nel settore privato e nelle pubbliche amministrazioni nazionali. Inoltre, è uno degli esempi italiani della capacità di attirare talenti pienamente inseriti in un dibattito internazionale.
Per questo, facendo a Joseph Weiler i migliori auguri di buon lavoro, li facciamo all’Europa e all’Italia europea. Il giudice Mancini, scomparso nel 1999, non può più continuare il suo dibattito con lui, ma in questi anni decisivi possiamo trarre ispirazione da quelle riflessioni: la sfida politica dell’unità europea può essere vinta colmando la distanza tra quelle posizioni, con la costruzione di un sistema istituzionale che regga una nuova e condivisa sovranità europea, uno spazio dei diritti e della responsabilità democratica. Se progetto e realismo cammineranno finalmente insieme, questi quindici anni non saranno trascorsi invano.
da www.partitodemocratico.it
Pubblicato il 15 Dicembre 2012