La cattiva notizia, purtroppo, era attesa. Ma ciò non la rende meno indigesta: a fine ottobre il debito pubblico ha superato la soglia dei 2mila miliardi per collocarsi a quota 2.014. Un record storico che spazza via ogni illusione di luci più o meno visibili in fondo al tunnel della crisi. Il cammino verso il riequilibrio dei nostri conti pubblici resta ancora lungo e impervio. Certo, ai più vigorosi aumenti del debito si era assistito, mese dopo mese, già nel corso dell’ultima e più recente gestione governativa del poco raccomandabile duo Berlusconi – Tremonti. Ma è un fatto che il dato comunicato ieri dalla Banca d’Italia fotografa la situazione dopo undici mesi di governo Monti nel pieno di una terapia d’austerità quale il paese non aveva mai conosciuto nella sua vita repubblicana.
Ciò induce, innanzi tutto, a due principali considerazioni. La prima è che, quando il governo dei tecnici ha preso in mano la gestione della cosa pubblica a fine 2011, lo stato dei conti era anche più drammatico di quanto si potesse pensare. Questa continua scalata del debito fa capire che nel bilancio pubblico sono presenti meccanismi, in tutto o in parte automatici, tali da imporre una deriva prepotente verso la bancarotta. La seconda e conseguente considerazione è che la pur massiccia raffica di decreti del governo Monti ha magari indebolito questa deriva, ne ha frenato la forza, ma non ne ha debellato la spinta.
Insomma, si è fatto quel che si doveva fare – o, meglio, non si poteva non fare – per scongiurare la corsa verso l’abisso. Sotto la pressione della straordinaria emergenza contabile si è fatto ricorso, come primo e immediato intervento, alla più classica delle manovre a presa rapida. Ovvero si è messa in campo una serie di aumenti di imposte – dall’Iva portata al 21 per cento fino all’anticipo dell’introduzione dell’Imu – per garantire all’Erario le risorse necessarie a sostenere i suoi obblighi primari, a cominciare dal regolare pagamento degli stipendi del pubblico impiego. Non altrettanto tempestivamente, però, si è provveduto a operare contro quegli automatismi nascosti nel mare grande
della spesa pubblica che da decenni stanno rendendo persa in partenza la rincorsa delle maggiori entrate alla sempre crescente dinamica delle uscite. Per carità, si è anche nominato un commissario straordinario alla cosiddetta spending review.
Ma dopo mesi di salassi fiscali indifferenziati e ben sapendo che un’opera di tal fatta potrà comunque dare risultati significativi soltanto in progresso di tempo e all’inesorabile condizione di colpire i veri centri di resistenza sul fronte della spesa che si annidano soprattutto ai vertici della burocrazia ministeriale, regionale, municipale.
Il risultato è quello di essere caduti anche in questa circostanza nella ben nota politica del prima aumentare le entrate e poi tagliare le uscite che ha sempre prodotto frutti avvelenati.
Purtroppo, non c’è davvero ragione per stupirsi se, lungo questa strada, il debito pubblico – pur con una velocità minore di quella del recente passato – sta continuando la sua corsa al rialzo.
Né è oggi rassicurante che si continui a confermare per fine 2013 l’arrivo al prestigioso traguardo del pareggio di bilancio. La mano fiscale pesante, indispensabile nella prima ora, non è stata compensata in alcun modo con misure di rilancio della domanda anche soltanto in termini di effettive (e non onerose) liberalizzazioni sui mercati. Cosicché i consumi, già deboli, sono in costante calo e fanno presagire un corto circuito anche nella politica fiscale. Sotto la pressione delle maggiori imposte lo Stato sta incassando di più, ma fino a quando? La crisi della domanda interna e le difficoltà dell’export allungano ombre minacciose anche su questo versante. Naturalmente, a nessuno è dato pensare che uscire da questa trappola sia impresa agevole e rapida. Ma forse un governo che ha trovato una «paccata» di miliardi da prestare a una banca nei guai poteva magari immaginare di fare qualcosa di più utile per tutti con quei soldi.
La Repubblica 15.12.12
Pubblicato il 15 Dicembre 2012
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