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“Palestina. La chimera della convivenza in una terra divisa dalla storia”, di Lucio Caracciolo

Che differenza c’è fra Santa Sede e Palestina? Secondo l’Onu nessuna, da quando il 29 novembre scorso l’Assemblea Generale ha elevato a schiacciante maggioranza (138 sì, 9 no e 41 astenuti) l’Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di “Stato osservatore non membro”, lo stesso di cui gode l’entità vaticana. Ma mentre la monarchia papale, con i suoi 572 cittadini in 0,44 chilometri quadrati, è uno Stato a tutti gli effetti, l’Anp del “sindaco di Ramallah”, Abu Mazen, resta una categoria dello spirito. Non controlla nessun territorio sovrano: quel che avanza della Cisgiordania occupata da Israele, amputata dal Muro e colonizzata dagli insediamenti ebraici – tra cui vere e proprie città fortificate – è strettamente sorvegliato dalle Forze armate di Gerusalemme. Sicché oggi nella “Palestina storica”, accanto allo Stato d’Israele troviamo due monconi isolati – Gaza e pezzi di Cisgiordania – che sfuggono a qualsiasi definizione geopolitica. Nel primo, esteso quanto la fu provincia di Prato, sono compresse oltre un milione e mezzo di anime, sotto il regime islamista di Hamas. Nel secondo, più piccolo della provincia di Perugia, si accalcano due milioni e mezzo di palestinesi, più quasi mezzo milione di coloni ebraici.
Su questo sfondo, il ritornello “due popoli due Stati” che la “comunità internazionale” – altra entità indefinibile – continua imperterrita a salmodiare, suona piuttosto beffardo. Non sarà certo il voto del Palazzo di Vetro a renderlo meno astratto. Eppure intorno ad esso si è animato l’ennesimo teatro retorico-diplomatico che i protagonisti della disputa israelopalestinese sentono il bisogno di allestire a intervalli irregolari per certificare l’esistenza in vita del contenzioso. Dunque del loro diritto a occuparsene, da professionisti del negoziato virtuale.
La drammatizzazione scenica non deve farci perdere di vista la sostanza: il sogno (o l’incubo) dei due Stati resta chimera. Per molte ragioni, di cui due decisive: il popolo palestinese è lungi dal formare una nazione; allo stesso tempo, la crescente eterogeneità della sua popolazione spinge Gerusalemme a cementare il fronte interno nella logica dell’emergenza permanente, a garanzia dello status quo geopolitico, dunque del titolo di massima potenza regionale.
Consideriamo i palestinesi. Oggi se ne contano circa 12 milioni e mezzo. Di questi, quattro milioni nei Territori occupati (Gaza e Cisgiordania), che per Israele sono “terre contese”. Solo un terzo del totale, quindi. Il resto (4,5 milioni) è dato da profughi nei paesi arabi, spesso stipati in campi invivibili, trattati come paria dai regimi che pure si proclamano difensori della loro causa; altri (1,2 milioni) sono cittadini della Giordania, separati nella fatiscente casa del re hashemita; altrettanti dispersi nel mondo, specie in Europa e nel Nordamerica. Infine, quasi un milione e mezzo sono israeliani. Cittadini non sionisti di che alcuni di loro continuano a considerare “entità sionista”, trattati come soggetti di serie B dal governo di Gerusalemme e come traditori dai più fanatici fra i loro connazionali (non concittadini). Tuttavia refrattari a scambiare il benessere e le relative garanzie della democrazia israeliana con la gabbia di Gaza o la Cisgiordania occupata e depressa.
Fra i palestinesi vigono inoltre ataviche gerarchie claniche. Alcune riflesse nella frammentazione politica, polarizzata fra i “moderati”
di Fatah e gli “estremisti” (classificati come “terroristi” da Israele) di Hamas, oltre a un rosario di formazioni minori, dalle più laiche e liberali a quelle di matrice islamista, vicine all’Iran. Ciascuna di tali organizzazioni ha la sua milizia e la sua intelligence – quasi sempre più di una. Più che dedicarsi a combattere il nemico sionista, anzi collaborando spesso con il Mossad, tali bande si contendono i traffici d’ogni genere che proliferano all’ombra dell’occupazione israeliana. Insomma, il popolo palestinese soffre, vive grazie agli aiuti internazionali (che contribuiscono a denazionalizzarlo), ma è lungi dal formare una nazione compatta e decisa nel reclamare un proprio Stato.
Peraltro Israele fa di tutto per impedire che le diverse anime palestinesi si raccolgano in un fronte unico. Con il paradossale risultato di intendersi meglio con Hamas – ad oggi il “male minore” nella Striscia, infiltrata dai qaidisti e dalle milizie filo-iraniane – grazie anche alla mediazione del nuovo Egitto di Morsi, che con il clan di Ramallah, comunque ricattabile perché ipercorrotto. Non ingannino le “guerre di manutenzione” Hamas-Israele, che servono a oliare i meccanismi di uno stallo cui nessuna delle due parti intende rinunciare, per carenza di alternative migliori.
Quanto al popolo israeliano. I cittadini dello Stato d’Israele sono circa 8 milioni, di cui quasi 6 classificati come ebrei, 1,7 arabi e 0,3 di altro ceppo. In base alle statistiche ufficiali, un quarto degli abitanti dello Stato ebraico non sono dunque ebrei. E di tanto in tanto riecheggia l’allarme del sorpasso arabo nello spazio dell’ex Mandato britannico, fra Mediterraneo e Giordano, recentemente riannunciato da Ha’aretz in base a discutibili statistiche fondate sul fisco. Ma il problema maggiore, per l’ebraicità dello Stato ebraico, non deriva tanto dalla crescita araba ai suoi vaghi confini (ovvero nei limiti del “Grande Israele”, esteso a Giudea e Samaria/Cisgiordania), quanto dalle divisioni interne alla maggioranza ebraica. Non solo la classica partizione originaria fra sefarditi e ashkenaziti, ma quelle recentemente accentuate dall’immigrazione di neoisraeliani di ascendenza africana e soprattutto slava. Immigrati recenti che costituiscono, fra l’altro, il grosso dell’esercito nazionale. A cominciare dagli ebrei di origine russa, alcuni dei quali meglio definibili come russi di origine ebraica (talvolta millantata), che occupano posizioni di rilievo nell’élite politica e nelle gerarchie sociali d’Israele, magari dotati di doppio o triplo passaporto. Per tacere dell’incomunicabilità fra estremisti ultrareligiosi, concentrati tra Gerusalemme e colonie, ed ebrei assai più laici, prevalenti a Tel Aviv e dintorni.
Un tempo, quando di venerdì ai preti veniva voglia di carne, la battezzavano pesce. L’“ego te baptizo Palestinam” pronunciato dall’Assemblea generale dell’Onu può divertire i cinici ma non cambia i termini del dramma. La Palestina è altrove.
La Repubblica 06.12.12