Ho appena visto in differita la puntata di “Che tempo che fa” con ospiti il Ministro Profumo e Salvatore Settis. Sentir parlare di scuola da due persone che non sono del mondo della scuola provoca sempre un effetto straniante. Si parla di insegnanti, di valore sociale della scuola, di come cambia la vita di ciascuno di noi attraverso la conoscenza e, ancora una volta, non si attiva un confronto tra personaggi come Profumo e Settis e un insegnante, o meglio ancora, tra loro e uno studente. Vero è che in una realtà frammentata e complessa come quella relativa alla scuola in Italia non esiste «l’insegnante italiano» o lo «studente italiano», fosse solo in relazione ai numeri: parliamo di circa ottocentomila docenti e di quasi nove milioni di studenti.
Quando ascolto riflessioni sulla scuola sorrido un po’, mi metto comoda e con l’animo del tipo «sentiamo cosa dicono stavolta». Stavolta è andata un po’ meglio, dico grazie al ministro e ancor di più a Settis, per le parole di elogio e per le belle intenzioni. Ma non ci siamo, non ci siamo affatto. Dalle parole del ministro non è venuta fuori nessuna visione strategica della scuola in Italia. È un’assenza di visione che riguarda tutto il Paese e penso che sia il vero nodo da risolvere. Ma a un ministro non la si può perdonare, nemmeno se si considera pro tempore. Mi fa sorridere ormai anche l’adagio corrente del «bisogna ridare dignità sociale agli insegnanti». Perché è astratto e tale rimane, se non si chiede il come fare a chi la scuola la vive o a chi sulla scuola studia. Fa un bell’effetto ripetere la frase di Jefferson pronunciata da Settis: «La scuola ha un valore prioritario nei consessi sociali e viene prima di qualunque postulato, persino prima dell’economia. Se non lo si capisce, i costi saranno di ordine sociale, civile e ed anche economici».
Il problema è che questi costi li stiamo già pagando. Più di dodici milioni di italiani, cioè quanti siamo parte del mondo della scuola e della ricerca in Italia, stiamo già pagando i danni indotti da scelte inadeguate. Noi direttamente, il resto del Paese indirettamente. È una miopia strategica che ha riguardato tutti i governi degli ultimi 30 anni, nessuno escluso. Non voglio ripetere le splendide riflessioni di Settis che ha ricordato la necessità costituzionale di assicurare sempre meglio il diritto all’istruzione e non sempre peggio, ma concentrarmi sulle cose da fare. Alcune a costo zero. Dicevamo del ruolo della scuola e della necessità di ricostruire una visione strategica di quel ruolo: lo si fa con gli insegnanti. Lo dimostra il recente studio della Pearson-Ocse: laddove la funzione degli insegnanti è potenziata e supportata da provvedimenti adeguati i sistemi scolastici sono efficaci ed efficienti. Sembra la ricetta della massaia e tutti potremmo essere d’accordo in via teorica.
Nei fatti in Italia si è creato l’equivoco. Dare cioè la responsabilità della crisi del ruolo della scuola esattamente a coloro che la portano avanti nonostante le scelte sbagliate di altri: gli insegnanti. Lo hanno fatto tutti nel corso degli anni fino ad arrivare al tabaccaio sotto casa mia e al premier Monti, che ci ha definiti conservatori e corporativi. Bisogna chiarirlo quest’equivoco e precisare alcune verità. Ci sono delle cose da migliorare nel corpo docente italiano e siamo i primi a dirlo. Ci sono delle cose da cambiare e siamo i primi a pretenderlo. Ma servono delle azioni strutturali e di ordine strategico, non pratico o marginale, come lavorare un’ora in più o in meno o dotare le classi e i ragazzi di tablet o lim.
La prima e più importante azione strutturale e strategica è rivedere la formazione dei docenti. Non va bene, non è aggiornata alla complessità dei problemi educativi attuali e scontiamo questa deficienza formativa nei primi anni di immissione in ruolo. La scuola secondaria italiana è fatta di docenti che sono immessi in ruolo o arrivano a insegnare, con una laurea che certifica il livello di conoscenza della disciplina da insegnare ma non fornisce, ad oggi, nessuna competenza specifica di tipo didattico-pedagogico. La seconda: la formazione in servizio. Con il capro espiatorio dell’amministrazione autonoma di ciascuna scuola e con lo spauracchio perenne della scarsità di risorse, il corpo docente italiano, ancora una volta soprattutto della secondaria, non è oggetto di corsi di aggiornamento in servizio, nazionali, uniformi e continui, da almeno 30 anni. Non si possono affidare temi così importanti alla discrezionalità del singolo docente o del singolo dirigente: servono un glossario e un lessico comune continuamente indagati e aggiornati all’oggi di concerto con istituzioni di ricerca qualificate. E allora, la dignità a noi docenti la date investendo non solo in termini economici ma ridandoci la nostra vera dimensione: lo studio e la riqualificazione professionale continua. La qualità di cui tanto parlate sta tutta là. Ridarci il momento della ricerca, della progettualità e della riflessione comune sul nostro mestiere. È necessario che il mondo della scuola si riconnetta, a costo zero, col mondo della ricerca educativa. Per dare valore a entrambi, e, attraverso la ricerca comune, ridare centralità ai processi educativi non ad altro. È una delle chiavi di volta.
Insegnare è uno stato di ricerca e di miglioramento continuo. È una pratica, non un dato. È una sperimentazione di percorsi comuni che vanno tracciati e riscritti in osmosi con il meglio della ricerca educativa, non in modo isolato nelle classi o nelle scuole. Fino a 30 anni fa era cosi. La pratica si è interrotta e oggi siamo dove siamo. Affidati allo spauracchio dell’autonomia. Posso affermare che le scuole da sole non hanno l’energia per affrontare il tema dell’aggiornamento. E comunque: se non c’è un formazione continua, uniforme, centralizzata e connessa con la ricerca educativa migliore, la buona volontà della scuola autonoma non basta. Sono azioni reali, praticabili, realizzabili, motori del vero cambiamento e della qualità dei sistemi d’istruzione. Tutto quello che cambia nella scuola deve nascere così: in seguito alla riflessione e alla sperimentazione comune tra scuola, società, politica e ricerca guidate da principi e pilastri pedagogico/ didattici, non dagli stereotipi correnti in un verso o nell’altro.
Insegnare è una scienza, è una professione difficilissima: si pratica con conoscenza e metodo, si affina e si acquisisce con lo studio e la sperimentazione qualificata. Che poi sia anche una passione va da sé, ma non va ridotta a quello perché sennò la qualità diventa discrezionale anziché diffusa. Deve essere alla portata di tutti i docenti e non solo di qualcuno, di tutti gli studenti e non solo dei «fortunati ad avere il docente bravo». Portateci dentro le università che si occupano di formazione e conducete i ricercatori nelle scuole. Questo accade in Finlandia e in Corea del Sud che sono primi al mondo, mica si son svegliati un giorno e hanno detto: da oggi rispettiamo gli insegnanti. Metteteci a lavorare e a studiare insieme, ricerca e scuola, riportando il nostro mestiere nel bel mezzo dei problemi educativi con gli strumenti adeguati, aiutandoci dal punto di vista logistico e amministrativo.
Tutto ciò non è nel segno dell’impossibile, bensì del possibilissimo. E allora ben venga la modernità: lo streaming nelle scuole dei convegni e dei congressi, le video conferenze di lezioni, la mailing nazionale su contenuti e pratiche internazionali. L’elefante scuola si aggredisce e rimpicciolisce e l’isolamento si rompe. Basta solo qualcuno che dia il la in viale Trastevere. Solo così si ridà ruolo sociale ai docenti, non solo e non tanto con la promessa di qualche euro in più in tasca sempre agitata e mai messa in atto o la minaccia di qualche ora in più di lezione frontale. La verità è che non vorremmo essere presi in giro da persone all’oscuro delle questioni nodali. Sennò si fa solo tanta aria fritta. Siete voi, tutti gli quelli che siete fuori dalle scuole, a non averlo capito. Dal tabaccaio sotto casa mia al ministro Monti.
L’Unità 05.12.12
Pubblicato il 5 Dicembre 2012