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“Acciaio, la crisi non è solo Ilva”, di Cinzia Penelope

Non solo Taranto, non solo Ilva. Allargando l’obiettivo dal focus centrale di questi giorni, il quadro complessivo della siderurgia italiana appare molto vicino a un cumulo di macerie. Il caso Ilva, naturalmente, è l’epicentro del disastro: secondo le stime di Federacciai, un eventuale chiusura dell’impianto pugliese porterebbe un danno economico pari a circa 8 miliardi annui, tra cassa integrazione, maggiori costi di approvvigionamento, ecc. A cui si dovrebbe aggiungere, secondo altre stime, un impatto negativo sull’economia pari alla perdita di punto di Pil all’anno. L’Ilva, infatti, con i suoi otto milioni di tonnellate di acciaio prodotte annualmente, e’ anche il principale fornitore dei grandi gruppi industriali dell’auto (Fiat, ma anche Bmw e Peugeot), del settore elettrodomestici, delle costruzioni, dell’impiantistica ecc. Poi c’è tutta la parte legata al commercio di prodotti piani, che compra lamiere e coils da Ilva per approvvigionare artigiani e piccole aziende. Secondo Federacciai, la struttura industriale nazionale utilizza due terzi della produzione complessiva dell’Ilva, per circa 5 milioni di tonnellate; se venissero a mancare, le imprese sarebbero costrette ad approvvigionarsi all’estero, con costi extra per un totale tra i 2 e i 5 miliardi di euro.
Ma l’Ilva, appunto, è solo la parte emersa di un problema più complesso e grave, che riguarda la siderurgia nazionale nel suo complesso. Tanto per fare esempi concreti, basta guardare a Piombino, l’altro grande polo siderurgico, passato dai Lucchini ai russi della Sevestal, che l’hanno spolpata, riempita di debiti, e abbandonata alle banche creditrici. Un eventuale fallimento di Piombino trascinerebbe con sé anche Trieste, dove hanno sede altri impianti dello stesso gruppo. Quanto a Terni, la cessione della ThyssenKrupp alla multinazionale finlandese è stata bloccata dall’antitrust europea, che vede il rischio di una posizione dominante e che ha imposto una vendita frazionata tra più soggetti. Ma questo significherebbe la fine della peculiarità di Terni e dei suoi acciai speciali, la cui produzione e’ possibile proprio grazie all’integrazione dello stabilimento.
Consapevoli della gravità del quadro, i sindacati, e in particolare la Cgil, hanno chiesto al governo la convocazione di quelli che sono stati definiti ‘’gli Stati generali’’ della siderurgia. L’obiettivo è mettere attorno a un tavolo tutti gli attori della partita: sindacati, rappresentanze imprenditoriali come Confindustria e Federacciai, ma anche le stesse filiere di imprese legate al settore, per avviare una analisi della situazione e individuare le soluzioni.
Gli strumenti e le sedi adatte, volendo, ci sarebbero pure. O meglio, c’erano. Presso il ministero dello Sviluppo, per esempio, era stato istituito l’osservatorio sulla siderurgia, ma non si riunisce da due anni ed è stato, pertanto, soppresso. Un secondo organismo, l’ACES, in pratica la versione italiana della piattaforma tecnologica europea, nel 2007 ha prodotto un dossier di alcune centinaia di pagine, contenente le linee guida per lo sviluppo dell’acciaio sostenibile e competitivo, ma è stata anche la sola cosa che ha prodotto.
Eppure, la siderurgia nazionale, proprio in questo particolare momento, avrebbe la sua migliore chance di vincere sul piano della competizione mondiale, essendo basata solo in piccola parte, rispetto agli altri paesi, sulla distribuzione tecnologica integrata, oggi particolarmente in sofferenza. Il che fornisce al nostro settore, rispetto a quelli di altri paesi, un teorico vantaggio competitivo. Ma perché questo avvenga, occorrerebbe che le imprese italiane imparassero a fare sistema, anche integrandosi rispettivamente. Argomenti di cui si potrebbe discutere per l’appunto in occasione degli Stati generali; ma, dicono i sindacati, non sembra che le imprese siano particolarmente interessate a farlo. Se il momento particolare, ben gestito, consentirebbe all’acciaio italiano un balzo in avanti, dall’altro, per contro una gestione errata, o carente, provocherebbe l’effetto esattamente opposto, cioè la sua fine, come si legge chiaramente in una relazione sul settore presentata il 26 ottobre a Brescia dalla Fiom, che pubblichiamo in documentazione. Nel corso del 2012 il comparto siderurgico ha sofferto molto meno dei settori che svolgono il ruolo di utilizzatori finali (cioè auto, costruzioni, ecc) e questo grazie alla domanda proveniente da altri paesi. Oggi però stanno andando rapidamente in crisi anche i mercati che fungevano da sbocco per le nostre produzioni, e le previsioni per il 2013 sono nere: se non riparte la domanda interna e si ferma anche l’export, sarà crisi vera. Il punto cruciale, secondo i sindacati, è decidere se l’Italia considera o meno strategica la siderurgia, e quindi mettere in campo tutte le misure necessarie a sostenerla. Scelte che condizioneranno il modello di sviluppo dei prossimi decenni, ma vanno prese in fretta, prima che sia troppo tardi. Di qui il pressing sul ministro dello Sviluppo Corrado Passera, perché convochi gli stati generali. Ma con poche speranze: il governo dei tecnici è agli sgoccioli, la campagna elettorale e le elezioni sono ormai alle porte, ed è concreto il rischio che tutto venga rinviato al nuovo esecutivo. Anche se per l’acciaio nazionale, a quel punto, potrebbe essere troppo tardi.
da Diario del Lavoro