Pierluigi Bersani ha vinto le primarie del centro-sinistra. Ha avuto ragione a ritenere – al di là di qualsiasi norma statutaria – che sottomettersi al vaglio dei cittadini e a un bagno di partecipazione popolare, negli anni bui che la politica sta attraversando, gli avrebbe portato più vantaggi che rischi. Spetta a lui ora traghettare il centro-sinistra verso la prova del governo, con i tempi corti e micidiali di un paese in perenne stato di emergenza. Matteo Renzi ha perso, stavolta, ma ha aggregato una componente «democratica» del tutto nuova, che include sia precedenti sostenitori del Pd sia nuovi arrivati, alcuni già pronti a tornare verso i molteplici rivoli da cui erano affluiti, altri che non sarà facile trattenere senza di lui.
Lo ha fatto sfidando tutto il gruppo dirigente del suo partito, graniticamente a favore del segretario, che alla fine è stato anche soccorso da tutti i candidati esclusi al primo turno.
Il popolo tenuto insieme da Renzi non è espressione della antica frattura tra Ds e Margherita. Diversi capi storici della Margherita sono stabilmente acquartierati nel campo bersaniano e d’altro canto molti elettori di Renzi non hanno nemmeno memoria di quel passato. I loro tratti distintivi sono chiaramente desumibili dalle inchieste campionarie svolte dopo il primo turno delle primarie. L’indagine di Fasano e Venturino (in parte già pubblicata su La Stampa) ce li mostra anagraficamente molto più giovani degli ellettori di Bersani. Gli ultra55enni sono il 56,5% tra gli elettori del Segretario, e solo il 36,5% tra chi ha votato per il sindaco. Gli elettori di Renzi sono meno identificati con le strutture di partito; molti di loro hanno partecipato per la prima volta alle primarie; e sono in una quota maggiore liberi professionisti, studenti, imprenditori. Solo una piccola parte si autocolloca a destra (il 5,7%), mentre una quota più consistente si autodefinisce di centro (26%, contro il 9% dei bersaniani), a dimostrazione che il Pd può intercettare anche quel tipo di consensi, senza l’intermediazione di altri partiti.
Altri indizi che vanno nella stessa direzione li porta un’analisi territoriale del voto svolta dall’Istituto Cattaneo. Se si confrontano, regione per regione, i dati sull’affluenza di domenica scorsa con quelli delle primarie nazionali più recenti (2009), si scopre che la partecipazione è calata meno o è addirittura cresciuta nelle regioni in cui Renzi ha preso più voti, e viceversa, in base a una tendenza lineare che va da Sud al Nord. In Sardegna, Calabria, Basilicata e Campania il popolo di Renzi alle urne non si è visto e la partecipazione è crollata. In Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana è capitato l’esatto contrario. Come lui stesso ha dichiarato, è prevalsa la diffidenza piuttosto che la simpatia verso l’avventurosa candidatura del «ragazzetto». Ma c’è dell’altro. Al Sud quel tipo di elettori è semplicemente meno diffuso e meno disponibile ad auto-organizzarsi. Sia il differenziale di partecipazione tra 2012 e 2009, sia le percentuali di voto per Renzi risultano correlati con indicatori di sviluppo economico della società civile. Dove l’economia è più dinamica il nuovo amalgama della sinistra liberaldemocratica ha preso corpo più facilmente, anche perché in quelle regioni è più diffusa la disponibilità a mobilitarsi per cause pubbliche senza essere sollecitati da macchine di partito.
Bersani ha dunque la grande responsabilità di provare ad assorbire anche questa componente della società italiana, uscita da uno stato di minorità. Se il Segretario vuole vincere le elezioni e governare, non può restringere i confini del centro-sinistra dentro un perimetro troppo più stretto rispetto a quello abbracciato dal sindaco. Questa è la sfida del Pd, unico partito sopravvissuto al dissesto della Seconda Repubblica e cresciuto, per ora, grazie alla restituzione di sovranità ai cittadini. Mentre la politica italiana è in caduta libera, ha l’occasione di ricomporsi intorno a una nuova sintesi, dando cittadinanza ai due popoli delle primarie. Per farlo dovrebbe cambiare pelle, non cedere alle tentazioni più o meno dissimulate di autoconservazione, non negoziare con le promesse appena fatte, ma aprirsi – quasi con un atto di fede – verso il futuro. L’onore e l’onere di questa sfida spettano a chi ha vinto.
La Stampa 04.12.12
Pubblicato il 4 Dicembre 2012