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““Una colossale presa in giro” Ecco tutte le menzogne dei Riva”, di Carlo Bonini e Giancarlo Foschini

Il decreto legge obbliga i proprietari dell’Ilva a investire tra i 3,5 e i 4 miliardi di euro nei prossimi sei anni. Quasi il doppio rispetto a quanto (2,5 miliardi), sostengono di aver speso negli ultimi 17 per rendere migliore l’aria di Taranto. Sono in grado di farlo? E, soprattutto, hanno intenzione di farlo? I documenti allegati all’inchiesta giudiziaria sconsigliano qualunque ottimismo, perché consentono di documentare almeno tre cruciali menzogne dei Riva. Scrive nel luglio di quest’anno il gip Patrizia Todisco: «Ci sono quattro atti di intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente del-l’Ilva: il primo dell’8 gennaio del 2003, il secondo del 27 febbraio del 2004, il terzo del 15 dicembre dello stesso anno e il quarto del 23 ottobre del 2006. Basta leggere l’ultimo per rendersi conto della colossale presa in giro: emerge con chiarezza l’assoluta inadeguatezza di quanto realizzato da Ilva in adempimento dei suddetti atti di intesa. Anzi, in realtà, non si comprende nemmeno bene cosa in effetti abbia realizzato se non la presentazione di documenti e piani di interventi solo sulla carta».
«Una colossale presa in giro», dunque. Vediamone i dettagli.
IL FALSO SULLA DIOSSINA
Nel 2003, dopo una stagione di conflitti con gli enti locali, inizia quella delle «intese» con gli enti locali. Propedeutiche al rilascio dell’Aia, l’autorizzazione imposta Europa per proseguire l’attività industriale. E il primo impegno preso dall’Ilva è quello di diminuire le emissioni inquinanti. Ebbene, prendiamo la diossina, l’inquinante più pericoloso tra quelli prodotti dal siderurgico. Nel 2002, l’Ilva produce il 30,6 per cento della diossina italiana. Nel 2006, il 95. «Il dato si basa sulle autocertificazioni — si difende l’azienda — molte altre aziende hanno omesso di dichiarare». Vero. Ma c’è un altro problema: l’Ilva ha sempre dichiarato di produrre meno di 100 grammi di diossina all’anno. Tutto si basa, però, sulle auto-certificazioni, perché nessuno è attrezzato per i controlli. Nel 2008 si attiva l’Arpa Puglia. E arriva la sorpresa: nonostante gli accordi, le intese e le promesse, i monitoraggi riscontrano 172 grammi di quel veleno. Com’è stato possibile l’errore? Eppure l’Ilva dichiarava di controllare le emissioni 24 ore su 24. «Un falso — scrivono oggi i Carabinieri del Noe — Perché la circostanza è totalmente in contrasto con quanto accertato in sede di incidente probatorio».
LE POLVERI DI TAMBURI
Un punto ricorrente in tutti gli accordi di programma è la salvaguardia del quartiere Tamburi, lo spicchio di Taranto adiacente allo stabilimento siderurgico. Gli enti pubblici si impegnano a destinare alla zona milioni e milioni di euro che dovrebbero arrivare dai fondi Cipe. L’azienda, contestualmente, si impegna ad abbattere drasticamente le emissioni delle polveri.
Si tratta delle polveri di minerale che vengono accumulate per poi essere trasformate in ferro. L’area si estende per 660mila metri quadrati e i cumuli hanno dimensioni importanti: una lunghezza di qualche centinaio di metri e un’altezza di oltre dieci. Bene, in tutto il mondo (dalla Germania a Taiwan) queste colline di materiale sono coperte, in modo tale da evitare dispersioni nell’aria. A Taranto, no. L’Ilva promette in uno degli accordi di programma barriere che risolvano il problema. E assicura che il risultato è raggiunto. È così? I carabinieri, nel 2010, vanno a controllare e paragonano i dati che registrano con quelli riscontrati nel 1999. «Per il ferro, nella postazione ubicata presso la scuola Deledda si osserva un incremento superiore al 10 per cento», manganese e vanadio calano di pochissimo mentre il «nichel risulta notevolmente aumentato ». E i soldi per il quartiere? Agli atti risulta soltanto un campetto di calcio, realizzato a spese dell’Ilva e praticamente mai inaugurato perché in zona troppo rischiosa e inquinata.
L’IMPIANTO DI UREA
C’è un ultimo inganno. In qualche modo il più incredibile. Quella dell’impianto di Urea. La chiamano la lavatrice dei veleni e per anni viene individuata come la risoluzione di tutti i problemi, perché “candeggia” i fumi abbattendone i livelli di diossina. Nel 2007 Girolamo Archinà, il capo delle relazioni esterne dell’Ilva oggi in carcere, dice: «La fabbrica dei veleni non esiste. Chiunque afferma il contrario fa del procurato allarme. L’Ilva sta riducendo le emissioni con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato con la Regione. E siamo pronti addirittura a dimezzarle se ci concedono in fretta l’autorizzazione per la realizzazione dell’impianto di urea». L’autorizzazione arriva e, il primo luglio del 2009, la foto dell’inaugurazione dell’impianto ritrae dietro un nastro, il governatore Nichi Vendola, il ministro Stefania Prestigiacomo e Fabio Riva, oggi latitante. Intorno a loro, persone che applaudono. «Quella macchina — dicono oggi in Procura — ha funzionato per 20 giorni, un mese. E poi basta».
La Repubblica 02.02.12

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