Chiunque sia il vincitore, è già possibile esprimere un giudizio obiettivo sulle primarie: si è trattato di una esperienza importante per tutti, a destra e a sinistra – in breve, per la democrazia italiana. È giusto dunque sottolineare il merito del segretario del Pd che le ha fortemente volute e anche il contributo di tutti gli altri competitors. Matteo Renzi è un personaggio che, essendo dotato di carattere e di ambizione, suscita differenti passioni.
Ma bisogna sapersi sollevare dallo spirito di parte e da atteggiamenti pregiudiziali, e riconoscere il lavoro che ha fatto per cominciare a ristabilire canali di comunicazioni fra i cittadini e la politica, cominciando a ricostruire nel nostro Paese quella che si chiama «opinione pubblica» e che è un pilastro delle democrazie moderne.
Ma proprio perchè si è trattato di un evento importante, le domande che ora si pongono sono queste: perché le primarie hanno avuto un successo così largo, in una situazione di vasta disaffezione dalla politica? E sono sufficienti le primarie per rimotivare e rinsaldare la democrazia italiana? Ricordiamo tutti, penso, le ragioni storiche e politiche alla base, nel nostro Paese, della nascita delle primarie. Esse sono state considerate uno strumento essenziale per ristabilire un circuito democratico di fronte alla crisi della politica di massa e delle sue strutture fondamentali, a cominciare dai partiti, che avevano «formato» la vita politica lungo il Novecento, a destra come a sinistra. Una crisi di portata europea, non solo italiana.
Da noi però quella crisi ha assunto tratti specifici, direttamente connessi ai caratteri della nostra storia. Si è configurata sotto la specie del «berlusconismo», con tutto ciò che esso ha comportato: una rivoluzione culturale imperniata sul primato dell’individuo e dell’individualismo; uno stravolgimento del rapporto tra i poteri; un rovesciamento sistematico delle relazioni tra «apparenza» e «realtà»; l’imporsi di forme di leaderismo inedite, almeno in quella forma, nella storia italiana: in breve, una miscela da cui è scaturito, diffondendosi, un nuovo tipo di populismo, capace di raccogliere intorno a sé un vastissimo consenso.
È in questo contesto storico e politico che a sinistra si sono affermate le primarie, e da questa situazione esse derivano meriti e limiti. Meriti, perché hanno posto con energia il problema della democrazia, mentre il berlusconismo si risolveva in una forma di moderno dispotismo; limiti, perché l’hanno fatto ricorrendo agli strumenti della democrazia diretta, e rischiando di porre anche a sinistra le basi di nuove forme di leaderismo e populismo. Come dimostra in modo esasperato Grillo, alla democrazia diretta è immanente il rischio di leaderismo, di autoritarismo e anche di dispotismo, nelle sue varie forme, compresa quella democratica.
Bisogna dire, per correttezza, che il segretario del Pd si è sempre dimostrato consapevole di questi rischi, e ha sempre volutamente rifiutato di presentarsi come un leader solitario, insistendo sul carattere collettivo della sua direzione politica. Lo sottolineo, perché è un fatto di sostanza, non solo di stile, che concerne anche la funzione, e il limite, di un evento, pur così importante come le primarie. È un elemento di forza, e di credibilità, per un Pd che voglia essere una funzione della democrazia italiana e condurre il Paese fuori del berlusconismo.
Per realizzarsi nella complessità delle sue articolazioni, la democrazia non può infatti risolversi in termini «diretti»: ha bisogno di connettere delega e rappresentanza; istanze e strumenti della democrazia diretta e istanze e strumenti della democrazia rappresentativa. E per far questo ha bisogno di partiti, di corpi intermedi diffusi e articolati, senza cui non può esserci effettività democratica, né può esistere un Parlamento in grado di rappresentare un Paese, promuovendo un effettivo cambio sia di classe dirigente che di direzione politica.
A mio giudizio, il problema principale che questa esperienza delle primarie ci consegna è quello di porre all’ordine del giorno la costruzione di un grande partito riformatore che riunisca tutte le forze interessate al cambio, chiudendo in modo definitivo con rotture, conflitti, lacerazioni. Bersani, Renzi, Vendola, Puppato, Tabacci hanno mostrato con la loro esperienza che questo è possibile, che si può cominciare a realizzare quella che sarebbe una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia delle forze riformatrici italiane, che è fatta di differenze, ma anche di sostanziali convergenze, mai valorizzate a sufficienza. Ha fatto bene Tabacci a ricordare Giovanni Marcora (Albertino): in quel nome può, e deve, riconoscersi chiunque in Italia sia interessato al cambiamento.
Questo è il problema di fondo con cui bisognerà confrontarsi nei prossimi mesi, tanto più se il centrosinistra vincerà le elezioni. Le primarie sono state un primo, fondamentale passo in questa direzione, contribuendo a far ri- scoprire valori e figure comuni. Ma sono state un passo al quale ne devono seguire altri. La democrazia è una cosa complessa, bisognerebbe sempre ricordarlo, non ammette mai scorciatoie.
L’Unità 29.11.12
Pubblicato il 29 Novembre 2012