Molto dipende ora da quel che si farà, nel Pd e nel centrosinistra, del tesoro accumulato alle primarie di domenica, e di quel che esse rivelano: un’enorme domanda di democrazia, e un bisogno, possente, che la politica torni in primo piano.
Che non si nasconda dietro governi tecnici come se non fosse capace, per incompetenza o neghittosità, di pesare con idee alternative sulla crisi e le sofferenze che ne discendono.
Non è detto che 3,1 milioni di elettori desiderino estromettere gli esperti, estranei ai partiti e allergici ai loro conflitti. Il voto è probabilmente spurio: in parte il popolo delle primarie vuole che partiti o movimenti ricomincino o comincino a governare, in parte è complice della sospensione della politica democratica classica, fatta di alternanze e ancor più di alternative alle ricette presenti. Resta che i cittadini si sono incaponiti nella loro domanda di politica, nella loro voglia di contare, e il voto l’hanno dato a candidati che per settimane si sono battuti non per guidare un partito, non per figurare meglio in Parlamento, ma per governare l’Italia in prima persona.
Le categorie che Albert Hirschmann teorizzò in un famoso saggio del 1970 sono più che mai attuali: alla strategia del tirarsi fuori (dell’exit), la cittadinanza antepone la presa di parola (il voice). Il voice è per natura partecipativo e «informativo» (cerca una spiegazione del declino incombente sulla Repubblica). L’exitprende atto del declino, non va oltre: è un ammonimento, necessario ma non sufficiente.
Quel che molti elettori sembrano chiedere è che le primarie non siano un Truman Show,
un cinema che proietta il film illusorio di un’alternativa riservandosi poi di proporre governi tecnici appena differenti dall’attuale. Conviene sapere quel che si dice, quando si afferma che più di tre milioni desiderano contare. Se pensano di poter contare, vuol dire che prendono per vera la ripetuta promessa dei candidati: il prescelto andrà a Palazzo Chigi, non s’è presentato alla ribalta con l’intimo retropensiero di capovolgere poi quel che ha raccontato. Una così massiccia affluenza alle urne non è il rifiuto della rabbia cui viene dato il nome frettoloso e comodo di antipolitica. È una presa di parola che costruisce sulla premonizione del declino. Tra exit e voice ci sono più legami di quanto si immagini.
Non si può escludere, insomma, che gli elettori alle primarie rifiutino il protrarsi dello stato di emergenza e le maggioranze solo numeriche che dopo l’uscita di Berlusconi si sono installate al potere. Rivendica maggioranze politiche. Il quasi ventennio berlusconiano non può esser più grave di quello fascista, e dal fascismo si uscì con la politica e una Costituzione, oggi da ripristinare come sostengono Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky. Se la democrazia fu bloccata per decenni, dopo il ’45, non fu solo perché s’imponesse una lunga decompressione dopo Mussolini, ma anche e soprattutto perché era iniziata la guerra fredda e il Pci era troppo forte. Se ricominciare il normale conflitto democratico fu possibile allora, con l’Italia a pezzi, perché non oggi? Perché non usciamo da una guerra?
Se queste cose non vengono dette con precisione, e comunicate subito al centro con cui forse si governerà, vorrà dire che le primarie sono servite a poco, e che l’euforia è un po’ chimerica. Non sarebbe d’altronde la prima volta che la volontà popolare cade nel vuoto. Ricordiamo i no al finanziamento pubblico dei partiti; a alleanze governative decise dopo il voto e non prima; a improvvisati mutamenti della Costituzione (respinti da 16 milioni, nel referendum del 2006). Ricordiamo il no a leggi elettorali che impediscono al cittadino di selezionare i propri rappresentanti, anche se non c’è stato referendum.
Non solo: se i finalisti delle primarie non saranno chiari su tali questioni, le stesse elezioni politiche rischieranno l’irrilevanza, qualora il verdetto venisse stravolto e gli elettori raggirati. Invocare il ritorno della politica equivale a chiedere che la politica ci sia e abiti a Palazzo Chigi, avvalendosi magari di Monti come ministro. Che la dialettica politica non sia sospesa in nome di una presunta nostra immaturità, e che possano esser messe alla prova altre linee politiche, se le agende dei governi precedenti non hanno dato risultati convincenti.
Solo a queste condizioni si possono usare le parole che circolavano domenica: bagno di
democrazia, bella giornata. Solo a condizione di rompere il cielo di plastica che avvolge il
Truman Show, e di dire ai votanti l’intera verità: sulle condizioni che saranno poste a futuri alleati, e sulla parola data (Bersani ha detto che torneremo alle urne, se Palazzo Chigi sarà negato al candidato con più voti).
Il compito di parlar-vero spetta sia a Bersani sia a Renzi. Nessuno dei due potrà dire una cosa in campagna, e poi accordarsi con chi esigerà che Monti resti perché mancheranno i numeri per governare senza Casini e le lobby montiane. Non dimentichiamo quel che Monti dice non oggi ma da anni: solo con sacre alleanze l’Italia uscirà dalla crisi; non con le alternanze che fondano la democrazia. Chissà se i votanti alle primarie sono tutti d’accordo con simili concezioni.
Ci sarà dunque bisogno non di euforia ma di fredda limpidezza, nel duello Bersani-Renzi. Limpidezza sulla natura delle primarie, che sono pur sempre una scelta fra candidati premier, non tra chi garantisce di rappresentare meglio di altri il Pd, nei negoziati che potrebbero riprodurre la soluzione Monti (magari spostata a sinistra) e quel che essa ha in fin dei conti significato: l’accantonamento dell’alternanza, la fine di un bipolarismo anche se imperfetto, e una linea economica che si sottrae, ritenendosi l’unica praticabile, al sì o al no delle urne.
L’unico candidato trasparente, su alternanza e alternativa, è Vendola: quel che chiede infatti è un’idea diversa di sviluppo e risanamento, e anche un’Europa più politica e davvero federale (il riferimento al Manifesto di Ventotene è esplicito). Le primarie sono un esercizio di stile, se Bersani e/o Renzi emargineranno non tanto la persona Vendola quanto il suo discorso di verità sulle nuove vie da tentare, quando i politici torneranno a governare. Se Bersani si occuperà solo degli elettori di Renzi (e viceversa) avremo primarie del Pd. Non di una coalizione di governo.
Si obietterà che l’alleanza Bersani-Vendola (o Renzi-Vendola) si svuoterà, in assenza di una maggioranza al Parlamento. Che non potrà fare a meno del centro, e di chi imporrà, perentoriamente, il Monti bis. Che sarà già un progresso, se il Monti bis rappresenterà il centro sinistra promettendo più equità. Forse è vero ma almeno lo si dica, alle primarie e alle politiche. E si dica subito a Casini, e alle liste montiane, che la loro forza non nasce dai numeri, ma da quella che Ezio Mauro chiama un’auto-unzione.
Non è detto che l’operazione verità riesca, perché il centrosinistra ha sorretto Monti e meditato poco su alternanze e alternative. Il marasma sociale non è quello della Grecia ma scuola e sanità sono in quasi bancarotta, dopo le ricette montiane. Quando nel pronto soccorso del San Giovanni Bosco a Torino c’è chi aspetta 4 giorni per essere accolto («non ci sono posti ») è già Grecia, e non è vero che il peggio è finito. Neppure un minuto, Bersani e Renzi si sono battuti per inventare un’Europa che faccia crescita quando agli Stati tocca il rigore (dunque un governo politico dell’Unione, con risorse di bilancio consistenti). Del tutto confusa, infine, la battaglia per una legge elettorale che rappresenti i cittadini ma garantisca pur sempre alla coalizione vincente di governare. E non parliamo qui della lotta anti-mafia, assente nei discorsi, o della misera legge anticorruzione che discolpa reati come falso in bilancio e autoriciclaggio Dicono che la sinistra è troppo triste. Per anni fu lo slogan di Berlusconi, purtroppo ripreso da Renzi. Se le primarie vogliono essere un esercizio di verità, anche questo luogo comune va sfatato. Non c’è da stare allegri, con la crisi che traversiamo, con l’ambiente svenduto all’Ilva o i pronti soccorsi intasati. La tristezza registra la verità che viviamo. Anch’essa può dare l’euforia di cui c’è bisogno, e spingere al voice anziché all’exit.
FRATTAGLIE
Alle primarie 2005 Prodi fu eletto candidato Premier (4,5 milioni di voti) e lo divenne.
Monti stesso ha detto domenica: «Un altro governo tecnico sarebbe una sconfitta per la politica».
La Repubblica 28.11.12
Pubblicato il 28 Novembre 2012