L’Europa procede a singhiozzo o se volete col passo del gambero e questo è un guaio perché i mercati restano all’erta e la speculazione quando può colpisce. Per fortuna c’è Draghi che vigila ed è pronto ad intervenire.
In quest’alternarsi di giornate buie e meno buie sia le Borse sia lo “spread” si mantengono in un (precario) equilibrio. Galleggiano a livelli accettabili. Siamo ancora in mezzo al guado ma senza affondare.
I contraccolpi sul sociale sono tuttavia assai duri e se ne sentono gli effetti: la rabbia cresce, le piazze protestano, i governi sono in difficoltà, il malumore nei confronti dell’Europa aumenta di tono e questo è il rischio maggiore perché le aspettative non cambiano se la fiducia non le sostiene.
In questo quadro le elezioni tedesche che si svolgeranno nell’autunno 2013 pesano negativamente. La Merkel ne è condizionata e l’Europa ne risente pesantemente.
Anche l’attesa di quelle italiane rappresenta un problema. Chi verrà dopo Monti? Se ne parla da mesi e l’attesa suscita l’ansia di molte Cancellerie, dalla Germania alla Francia e perfino alla Casa Bianca. Il nostro attuale premier ha recuperato una credibilità internazionale che era andata totalmente perduta. Reggerà con i suoi successori senza di lui? Il nuovo Parlamento e il nuovo Capo dello Stato manterranno gli impegni presi con l’Europa? Questo è il tema che domina l’attualità europea e italiana.
Abbiamo più volte ricordato che l’Italia ha un peso determinante sulla tenuta finanziaria e monetaria dell’intero continente, sui tassi d’interesse, sulla dinamica dei flussi commerciali e degli investimenti e sulla solidità dei sistemi bancari.
La risposta degli arrabbiati (che sono molti e non solo in Italia) è purtroppo inconsistente: i bisogni sociali non possono dipendere dai mercati – dicono – il lavoro non è una variabile dipendente, la dittatura dello “spread” è una menzogna che va denunciata, un totem che va abbattuto ristabilendo la verità. E’ così?
No, non è così. Lo “spread” è semplicemente un numero differenziale rappresentativo della fiducia con la quale è misurato il valore dei titoli di Stato. Se le finanze pubbliche di quello Stato non sono in ordine la fiducia nei suoi titoli diminuisce e lo “spread” aumenta, gli investitori stranieri fuggono (anche quelli italiani), le banche che hanno quei titoli in portafoglio vedono diminuire la loro solidità, ma nella stessa difficoltà si trovano anche altre banche di altri paesi che hanno fatto credito alle nostre; i risparmiatori che hanno sottoscritto i titoli vedono a rischio una parte del loro patrimonio e di conseguenza contraggono la loro domanda di beni e di servizi. Gli investitori nazionali non investono e la disoccupazione aumenta.
È curioso che queste elementari verità debbano essere costantemente
ricordate ed è curioso che una parte crescente di persone e di forze politiche continuino a predicare che bisogna liberarsi dalla dittatura dello “spread” e dei mercati. Perfino la Russia, perfino la Cina – paesi governati da regimi non democratici e non liberali – sentono il morso dello “spread” e hanno bisogno della fiducia internazionale. La crisi del rublo di qualche anno fa mise Putin a malpartito e lo obbligò a negoziare il sostegno della finanza americana; la crisi economica attuale ha spinto la Cina a sostenere la domanda interna frenando le esportazioni.
In un’economia globale questi fenomeni che testimoniano l’interdipendenza dell’economia dovrebbero essere compresi da tutti. È una sciagura che la demagogia continui ad offuscare la mente di tanti.
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Ovviamente non è soltanto con il rigore economico che si curano questi malanni. Per paesi dissestati il rigore è una condizione necessaria ma assolutamente insufficiente. Purtroppo è molto difficile appaiare la terapia del rigore con quella dello sviluppo. La ragione è evidente: il rigore nell’Europa di oggi ha un campo d’esecuzione nazionale; lo sviluppo, cioè la crescita, dipende in larga misura dall’Europa. Se l’Europa, cioè le Autorità che la governano, non imbocca coraggiosamente la via dello sviluppo, esso non avrà luogo.
Ciò non significa che i singoli governi e le parti sociali del paese in questione non abbiano strumenti per agire, significa però che gli effetti di quegli strumenti sono limitati.
È chiaro però che in Italia quegli strumenti non sono stati finora usati. La responsabilità di questa grave omissione non è tanto colpa dell’attuale governo ma soprattutto delle parti sociali e in particolare della borghesia imprenditoriale.
Da vent’anni o forse trenta l’imprenditoria italiana ha cessato di espandersi. Si è specializzata, si è tecnologicamente ammodernata, si è anche dislocata e al tempo stesso si è contratta. La base occupazionale si è ristretta. La manifattura ha ceduto il campo alla finanza. Le grandi imprese si sono sfilate in gran parte dal mercato nazionale, le medie hanno dismesso una parte delle loro attività, le piccole non sono cresciute e i padroncini sono rimasti quelli che erano con l’aggiunta che la generazione dei fondatori ha passato la mano ai figli e ai nipoti con conseguenze negative come quasi sempre accade in questi casi. Soprattutto l’imprenditorialità italiana ha fatto difetto di invenzione di nuovi prodotti.
Il sindacato dal canto suo è decaduto dai tempi eroici. Vent’anni fa rappresentava ancora non solo i lavoratori occupati ma anche i disoccupati e le nuove leve dei giovani che arrivavano sul mercato. Oggi non è più così, complice la molteplicità dei contratti esistenti. Il sindacato operaio di oggi rappresenta i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e i pensionati, il che significa che ogni lavoratore che va in pensione non sarà sostituito con quel tipo di contratto. Tra poco perciò i sindacati operai diventeranno di fatto sindacati dei pensionati. Non è una bella prospettiva.
Dispiace che la Cgil non si sia data carico del tema della produttività e ripeta sulle piazze le consuete giaculatorie contro i mercati e contro lo “spread”. Se la Camusso non comprende la questione, la studi; se l’ha compresa non faccia demagogia; se è condizionata dalla Fiom abbia il coraggio di liberarsene e ne spieghi le ragioni.
Le parti sociali da molti anni hanno gravi responsabilità, Montezemolo e Marcegaglia inclusi.
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In queste condizioni Napolitano ha ricordato che il nome di Mario Monti non è spendibile nelle prossime elezioni come leader di uno schieramento o addirittura di un partito. Sembra che Monti se ne sia adontato ma io non lo credo. Monti sa benissimo che un senatore a vita non si può presentare alle elezioni. Tecnicamente. Dovrebbe prima dimettersi da senatore a vita e non credo affatto che abbia questo in mente.
Napolitano ha ricordato questa situazione perché l’iniziativa di Montezemolo e la posizione di Casini, l’uso ripetuto cento volte del nome di Monti come il “conducator” del Centro moderato stavano diventando una sorta di “mantra” pre-elettorale.
Il compito di Monti e del suo governo avranno termine nel momento stesso in cui il nuovo Parlamento uscirà dalle urne e a sua volta scadrà il mandato settennale di Giorgio Napolitano (purtroppo, sottolineato).
Non cadranno però gli impegni che l’Italia ha assunto con l’Europa, quelli che a torto o a ragione si chiamano agenda Monti. Sarà invece non solo possibile ma necessario che al rigore adottato da Monti si affianchi finalmente il rilancio dello sviluppo, come del resto lo stesso Monti sta ora tentando di ottenere in Europa e con l’Europa.
Se la maggioranza che emergerà nel nuovo Parlamento riterrà di aver bisogno di Monti, lo inviterà, lo proporrà come “premier” o gli offrirà un ministero importante. Oppure lo eleggerà al Quirinale. Ma spetta alla nuova maggioranza prendere queste decisioni e non sarà più una maggioranza tripartita: il Pdl di fatto ha cessato di esistere proprio ieri, perché sembra ormai certo che Berlusconi si ripresenterà con una sua lista in contrasto con il suo partito.
Resteranno dunque in campo il centro e il centrosinistra. Monti non può essere il candidato né dell’uno né dell’altro, perderebbe in Italia la credibilità che ha così pienamente acquistato in Europa. Si tratta di questioni talmente evidenti che non ci sarebbe stato neppure il bisogno di ricordarle se i vari gruppi di centro non avessero continuato a spendere il nome di Monti logorandolo e rendendo necessario la precisazione
di Napolitano durante il suo viaggio di Stato in Francia.
Va ricordato a questo proposito che erano 21 anni da quando un presidente della Repubblica italiana fu invitato a Parigi. Ora è finalmente avvenuto e il nostro Presidente è stato accolto dal suo omologo francese con solennità e cordialità. L’intesa tra Italia e Francia sui problemi europei è una forza nuova di grande importanza per il presente e per il futuro. Ne va dato atto a Napolitano e a Monti, ancora una volta uniti nel medesimo disegno.
Le elezioni politiche che ci attendono fra pochi mesi tengano conto di questi fatti e del quadro che hanno creato. Ne deve uscire un risultato di governabilità e chi otterrà maggiori consensi dovrà utilizzarli con coraggiosa saggezza.
Post scriptum.
Oggi si vota per tutto il giorno alle primarie del Pd e del centrosinistra. Il nostro giornale ha sottolineato più volte la loro importanza e anche la loro unicità positiva nel panorama della democrazia italiana.
I candidati sono cinque e tutti meritevoli di attenzione sia pure con le molte differenze nei loro programmi. Non sta ad un giornale come il nostro schierarsi per l’uno o per l’altro. Ma un collaboratore può certamente farlo e anche dirlo. Io non sono di centro e neppure di sinistra. Perciò voterò un candidato di centrosinistra cioè Pierluigi Bersani. E non credo di sbagliare.
La Repubblica 25.11.12
Pubblicato il 25 Novembre 2012