Forse non è una sorpresa, visto che il record è ben saldo nelle nostre mani per le categorie più diverse: dai politici ai manager, dai vescovi ai professori universitari. Ma se tutti sappiamo che l’Italia è un Paese per vecchi, al lungo elenco delle prove possiamo aggiungere un’altra voce. Abbiamo i presidi più anziani d’Europa. L’85% ha più di 50 anni contro una media europea del 60%. E uno su tre ha superato pure i 60 anni. L’esperienza è un patrimonio che non va sprecato, ci mancherebbe. Ma forse abbiamo esagerato e anche l’accesso alla professione non aiuta.
L’ultimo concorso per presidi, partito un anno e mezzo fa, non si è ancora chiuso. Trentamila partecipanti, errori nelle domande, ritardi, ricorsi al Tar perché le buste erano trasparenti e non garantivano l’anonimato. Il risultato è che, su 2.300 posti messi a concorso, solo 800 sono stati coperti e abbiamo ancora 2 mila scuole in «reggenza», cioè con un dirigente in condominio, che guida almeno un altro istituto. Proprio a questi problemi è dedicato il seminario internazionale organizzato dall’Associazione TreLLLe e dalla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo che si tiene oggi al ministero dell’Istruzione. Un incontro con i massimi esperti stranieri del settore, per studiare le migliori esperienze degli altri Paesi e provare a portare da noi qualche buona pratica. Nella maggior parte dei Paesi europei, ad esempio, è prevista un’età massima per partecipare alla selezione. Il tetto varia tra i 50 e i 55 anni. Noi siamo tra i pochi a non aver una soglia di sbarramento che metterebbe un freno al numero dei candidati, evitando che il concorso si riduca a lotteria.
Un altro modello arriva dalla Francia. E lo spiega Claude Thélot, tra gli invitati al seminario e già responsabile della commissione sul futuro della scuola sotto la presidenza Chirac. «Chi vince il concorso non viene nominato subito preside, ma adjoint, vicario. Viene assegnato a un preside che lo tiene con sé almeno un anno e poi lo valuta insieme a un ispettore». Un periodo di prova, insomma, non l’automatismo previsto da noi. Sul tavolo ci sono altri elementi ancora, come la possibilità che sia la singola scuola a scegliere il preside da una lista di idonei, come in Gran Bretagna. Ma al di là dei singoli esempi, quel che conta è l’impostazione generale.
«Noi speriamo — dice Attilio Oliva, presidente dell’associazione TreLLLe — che il ministero si impegni per lo sviluppo di questa professione cruciale e per certi aspetti nuova». In che senso nuova? «Il modello — spiega Anna Maria Poggi, presidente della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo — non deve essere quello del primus inter pares, con il preside che amministra. Piuttosto deve essere un leader educativo che gestisce la scuola e ha come obiettivo lo sviluppo professionale degli insegnanti». Non un accentramento di potere ma, come spiega ancora Oliva, «quella che si chiama leadership distribuita e condivisa, con il preside più uno stretto gruppo di collaboratori di fiducia». «A parità di condizioni il preside può fare la differenza», dice il sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini. E per questo richiama l’importanza del regolamento in corso di approvazione «per valutare i dirigenti scolastici sulla base di obiettivi precisi».
Il Corriere della Sera 22.11.12
Pubblicato il 22 Novembre 2012